Tra retoriche e pratiche

La legge regionale 25/22[1] è un’opportunità importante per gli operatori che, come me, sono impegnati sul campo nel lavoro con le persone con disabilità ed i loro famigliari poiché ha l’obiettivo di delineare una cornice finalizzata a stimolare nei territori azioni articolate, complessive, di sistema.
Se consideriamo il panorama frammentato delle misure attive relative, direttamente o indirettamente, alla co-progettazione dei progetti di vita delle persone con disabilità (Pro.Vi, assegno autonomia FNA Misura B2, azioni dei programmi regionali L 112/16), disporre di stimoli normativi che suggeriscano una cornice e una direzione complessiva è utile.
L’indirizzo politico regionale ci ha spinto nella direzione dell’individualizzazione degli interventi, che si concretizzano con insistenza in cash o voucher, e ha diretto l’agire professionale e le strutture organizzative a dedicare molte risorse alla raccolta e rendicontazione di domande individuali, distogliendone, di conseguenza, alle progettazioni e al lavoro di comunità[2].
In questo senso è importante notare come la rubrica della legge[3], oltre a parlare di vita indipendente, parli anche di inclusione sociale. Una precisazione importante, a fronte del rischio di protendersi ad una vita indipendente in una prospettiva fortemente individualizzante che faccia, quindi, recedere sullo sfondo il tema dell’inclusione nella comunità[4].

La legge 25/22 tratta un tema, quello della vita indipendente, da anni sviluppato nei territori dagli enti istituzionalmente competenti a farlo, i comuni.
Nell’esperienza dell’Ambito di Garbagnate, assieme ai servizi comunali, lavoriamo sui progetti di vita con le persone con disabilità e le loro famiglie ormai da tempo avendo, a questo proposito, strutturato una metodologia, degli strumenti e un complessivo impianto che orienta l’azione. Si tratta di un processo avviato e che forse è degno in qualche modo di considerazione.
Come si sta facendo sul territorio garbagnatese si sarà fatto certamente, in modi diversi, anche in altri territori. Quali gli apprendimenti complessivi sviluppati in questi anni nei territori? Quale impatto hanno avuto gli interventi attuati? Quali differenze ci sono nei diversi territori rispetto a questi temi?

L’inclusione come riferimento

Il tema dell’inclusione sociale è centrale nell’agire dell’Ambito territoriale garbagnatese riguardo i progetti di vita delle persone con disabilità perché è proprio a partire dall’inclusione sociale che possiamo lavorare autenticamente per la costruzione di comunità più eque e coese.
Intendiamo qui per inclusione sociale quelle “esperienze che permettono il riconoscimento e la valorizzazione delle differenze nelle comunità”[5].
In questo senso è importante parlare di progetti di vita inclusivi. Certamente dovranno essere individuali, personalizzati e partecipati (come più volte ripreso dalla legge 25), ma limitarsi a questi tre aggettivi si rischia di porre in secondo piano il rapporto tra progetto personalizzato (diverso da quello individuale o individualizzato come di seguito spiegherò) e comunità in cui si deve radicare. In un contesto così fortemente marcato da processi di individualizzazione come quello lombardo, occorre evidenziare la necessità di andare oltre l’individualità, affinché possa sempre più crescere la centralità della persona in quanto essere-in-relazione, anziché la centralità della sua disabilità[6].

Occorre avviare con sempre maggior decisione un processo di soggettivazione delle persone con disabilità, ponendo al centro le comunità e le relazioni che le vivificano, più che gli individui. Ciò che emerge con forza dal lavoro quotidiano è che un progetto di vita è inclusivo se è sia personalizzato sia comunitario. Diversamente, si rischia di conservare e reiterare dinamiche in qualche modo segreganti (ossia che producono o riproducono contesti a parte rispetto alle comunità di appartenenza destinati alle persone con disabilità). Questa relazione tra persona e contesto è autentica se e solo se è caratterizzata da una logica di reciprocità. Non è pensabile l’inclusione di una persona con disabilità in una comunità se il rapporto tra l’una e l’altra è governato da dinamiche di uso. In un contesto prestazionale e individualizzante, se ci si ferma alla sola costruzione ed affermazione di diritti, senza agire affinché questi diritti si tramutino in strumenti per facilitare il passaggio da disabili a cittadini, il rischio è che questi stessi diritti possano divenire causa di esclusione ed emarginazione dal contesto, perché verranno percepiti come “vantaggi”, in una logica di lobby, garantiti anche a discapito di altre categorie fragili.

Porre al centro delle policy l’inclusione ha una serie di conseguenze che, a cascata, coinvolgono tutti gli attori in gioco (persone con disabilità, famigliari, enti del terzo settore, enti pubblici e comunità), su più piani: organizzativo, economico e, soprattutto, politico[7].
Ritengo che nel contesto lombardo il paradigma inclusivo non sia prevalente[8]. Sostengo questa affermazione con due osservazioni:

  • se è centrale l’inclusione non può essere prevalente (come è) un’architettura della rete dei servizi basata sulla gravità delle persone con disabilità (e non, ad esempio, sulla fase di vita che stanno vivendo) e sulla conseguente definizione di unità di offerta ingessate da criteri di accreditamento di prodotto (e non di processo) rigidi che vanno a caratterizzarle come “luoghi a parte” rispetto alle comunità;
  • se è centrale l’inclusione non può essere prevalente (come è) la logica della competizione quale riferimento nel governo delle relazioni tra i soggetti della rete e in particolare tra pubblica amministrazione e terzo settore e tra attori del terzo settore. Riconoscere e valorizzare le differenze implica il prevalere di dinamiche cooperative tra tutti i soggetti coinvolti. Oggi non è così: ad esempio la pubblica amministrazione affida servizi al terzo settore in grande prevalenza attraverso strumenti segnati da dinamiche competitive (gare di appalto, accreditamento).

 Co-progettazione come processo sociale

Da questo punto di vista è importante che la legge 25 affermi che il progetto di vita è una co-progettazione. Tuttavia, occorre specificare che questa affermazione lascia ancora una volta spazio ad ambiguità circa la reale attenzione all’inclusione come riferimento fondamentale.
In una prospettiva inclusiva, infatti, intendiamo la co-progettazione non solo come strumento per l’affidamento di un nuovo servizio, ma, prima di tutto, la intendiamo come un processo sociale che deve venire prima dello strumento amministrativo. Infatti, ancora una volta, è possibile co-progettare al di fuori della prospettiva inclusiva, relegando questo strumento di affidamento all’ennesima modalità per precarizzare il rapporto tra pubblica amministrazione e terzo settore, deresponsabilizzando la prima e scaricando sui secondi ulteriori carichi sia dal punto di vista progettuale sia di quello della sostenibilità. Purtroppo, la co-progettazione ai sensi dell’art. 55 non include le persone con disabilità e i loro famigliari quali soggetti formalmente titolati a co-progettare. Ciò non impedisce che possano comunque essere inclusi in un processo sociale di co-progettazione.

Riposizionamenti

Avviare un processo di co-progettazione in una prospettiva inclusiva implica la necessità di riposizionarsi da parte degli attori coinvolti. L’ente pubblico ha il compito di essere colui che attiva, sostiene e favorisce questo riposizionamento e passerà dall’essere erogatore di risorse per le progettazioni individuali ad allestitore di contesti nei quali possano essere riconosciute e valorizzate le differenze. I soggetti del terzo settore passeranno dall’essere gestori di servizi e/o erogatori di prestazioni codificate (e cristallizzate nella cornice dell’appalto o dell’accreditamento) all’essere facilitatori di relazioni con il contesto. Le persone con disabilità passeranno dall’essere utenti e clienti ad essere persone e cittadini. Di conseguenza, relativamente ai progetti di vita inclusivi, il gruppo di lavoro multi-professionale che si andrà a costituire (del quale farà parte a pieno titolo il diretto interessato e, se il caso, anche la sua famiglia) diverrà sempre più un riferimento per la persona con disabilità e la sua famiglia. Questo passaggio marca una differenza importante rispetto al quadro culturale e politico in cui ci muoviamo, perché implica il fatto che l’incontrarsi non sarà dettato solo da una domanda cogente, ma dall’esigenza di strutturare e coltivare una relazione di collaborazione prima e fiducia poi e dal sostenere e accompagnare un processo.

È necessario che maturi la consapevolezza che la richiesta di un progetto di vita inclusivo da parte di una persona con disabilità e/o della sua famiglia implica la crescita della rilevanza comunitaria di quel progetto. Le decisioni si prendono insieme e insieme se ne assumono le responsabilità, si è corresponsabili ciascuno per la propria funzione in un contesto relazionalmente circolare (al di fuori di rivendicazioni o deleghe ai servizi in quanto abitati da specialisti). La tensione è ad una redistribuzione di potere che deve concretizzarsi nella costruzione di un “noi” tutto nuovo.

Le persone con disabilità e le loro famiglie sono cresciute in un contesto dominato da dinamiche di rivendicazione/delega, i soggetti del terzo settore sono riferiti alle loro prestazioni e vivono come costi difficilmente sostenibili quelli legati alla partecipazione ai momenti di co-progettazione più ampi, gli enti pubblici sono in trincea e ingessati nella postura “a domanda rispondo”, così radicata nelle policy individualizzanti regionali pertanto il tempo necessario alla maturazione del processo circolare e di corresponsabilizzazione è variabile: possono volerci pochi giorni o alcuni anni di lavoro insieme.
Certamente in questa prospettiva non è in alcun modo ritenibile il progetto di vita inclusivo come un atto burocratico-amministrativo. Al contrario, ho potuto apprezzare sul campo l’importanza di un approccio biografico nella stesura del progetto di vita inclusivo che viene redatto, quindi, con adeguato supporto, dai diretti interessati e viene arricchito con i punti di vista di tutto il gruppo di lavoro.
L’approccio inclusivo mette in crisi l’idea stessa di progetto di vita ed invita ad un suo superamento perché emerge con forza la centralità della costruzione di un vero e proprio “nucleo comunitario di riferimento”, grazie al quale e a partire dal quale il progetto personalizzato possa divenire sempre più comunitario (e dunque inclusivo). Sarebbe, forse, più coerente parlare di “percorsi di vita” invece che di progetto di vita.

Una ulteriore puntualizzazione su una questione affrontata anche nell’ambito della legge 25 riguarda la presa in carico sanitaria delle persone con disabilità adulte, spesso connotata dall’artificiosa differenza tra presa in cura (quella garantita dai CPS per la sola somministrazione della terapia) e presa in carico (quella, appunto, garantita da servizi dedicati, quando esistono).
In questi anni, famigliari e amministrazioni comunali del garbagnatese hanno fatto pressione su ASST affinché si strutturasse una risposta concreta alle necessità sanitarie delle persone con disabilità, ottenendo l’avvio di un servizio specifico dedicato a tali esigenze. Al di fuori di questa realtà le cose sono variegate e forse è necessario garantire una maggior omogeneità sul territorio regionale.

Dai centri per la vita indipendente ai cantieri per la vita interdipendente

L’idea stessa di vita indipendente stride sia semanticamente sia sostanzialmente con l’esperienza fatta nell’ambito della prospettiva inclusiva. Credo abbia maggior senso e possa garantire un’autentica soggettivazione delle persone con disabilità superare l’idea della vita indipendente, ambiguamente in sintonia con il panorama individualizzante, ed entrare in quella della vita interdipendente, ossia di una vita in cui, in relazioni (facilitate e supportate) di reciprocità con il contesto – autentico setting educativo per eccellenza -, la persona con disabilità sia prima di tutto e sempre più persona.
Nella cornice prestazionale odierna la vita indipendente rischia di venire relegata a un fatto tecnico, sostenendo, anche tramite la legge 25, che sia necessario maggior e diverso supporto tecnico a chi ad oggi ha la competenza istituzionale per promuoverla. Certamente, da punto di vista tecnico si può fare meglio e di più, ma forse non è questo il punto.

La direzione nella quale stiamo provando a muoverci e a praticare (non senza difficoltà) come Ambito territoriale è quella di allestire contesti, che abbiamo chiamato “cantieri per la vita interdipendente”, ovvero esperienze grazie alle quali le persone con disabilità possano contribuire alla costruzione e alla vita delle comunità che abitano e, in esse, del loro progetto di vita inclusivo.
I cantieri per la vita interdipendente sono contesti di co-progettazione misti composti da operatori, famigliari, persone con disabilità e assistenti sociali, nei quali si co-costruiscono co-progettazioni relative ad oggetti di lavoro trasversali, che riguardano, cioè, tutti i cittadini. Sono attivi cantieri per la vita interdipendente relativi allo sport, alla cittadinanza attiva, alla cultura e tanti altri se ne possono avviare. Nell’attivazione di questi cantieri cerchiamo di coinvolgere il prima e il più possibile attori sociali che non abbiano a che fare direttamente con il mondo della disabilità, ma che si interessino prima di tutto del tema di cui si occupa il cantiere (ed esempio Legambiente per la cura del territorio e il Ciessevi per il volontariato attivo delle persone con disabilità).

In conclusione: in questo frangente storico così turbolento, l’inclusione sociale delle persone con disabilità e la co-progettazione dei progetti di vita sono temi decisivi rispetto alle sorti delle intere comunità in cui viviamo.
Non discernere con chiarezza le politiche che si proclamano inclusive ma agiscono nel segno dell’individualizzazione da quelle che praticano e costruiscono opportunità reali di soggettivazione delle persone con disabilità sarebbe un grave errore che priverebbe ulteriormente le persone con disabilità della loro vita politica e della possibilità di contribuire alla costruzione delle comunità in cui viviamo tutti. Comunità che sarebbero, con il loro contributo, certamente più giuste ed eque. Per tutti.
È quello che vogliamo?


[1] Per approfondimenti si segnalano i seguenti contributi pubblicati su LombardiaSociale.it:
Mozzanica R., Il diritto alla vita indipendente di tutte le persone con disabilità, 3 marzo 2023
Plebani R., Voglio una vita … di quelle fatte così, 29 maggio 2023
[2] Per un approfondimento sull’impatto dell’individualizzazione degli interventi in Lombardia, in particolare nel periodo della pandemia, si veda https://scambi.prospettivesocialiesanitarie.it/la-fragilita-come-vaccino-comunitario/
[3] “Politiche di welfare sociale regionale per il riconoscimento del diritto alla vita indipendente e all’inclusione sociale di tutte le persone con disabilità”
[4] Il titolo del contributo “una persona è una persona tramite altre persone” è un proverbio Ubuntu. Ubuntu è un’etica dell’Africa sub-Sahariana che si focalizza sulla lealtà e sulle relazioni reciproche delle persone.
[5] C. Palmieri, “Disabilità e inclusione: una proposta pedagogica”, in C. Del Carro, R. Morelli (a cura di), L’inclusione sociale delle persone con disabilità ai tempi del Covid, Maggioli, Santarcangelo di Romagna, 2021, p. 113.
[6] A questo proposito si veda la fondamentale distinzione tra Communitas e Immunitas in L. Bruni, La ferita dell’altro, Il Margine, Trento, 2012, p. 61.
[7] Per un approfondimento circa l’inclusione e le sue conseguenze, si vedano i seguenti contributi pubblicati su welforum.it: Castegnaro C. (a cura di), L’inclusione e le sue implicazioni I parte e II parte  [8] Si veda ancora R. Morelli e S. Anelli, “I servizi per le persone con disabilità ai tempi del Covid – I servizi Sociali degli enti locali”, in C. Del Carro, R. Morelli (a cura di), L’inclusione sociale delle persone con disabilità ai tempi del Covid, Maggioli, Santarcangelo di Romagna, 2021, p. 79.