Progetto di Vita, le sei sfide per la cooperazione sociale

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L'avvio della sperimentazione del decreto sul "Progetto di Vita" chiede grandi cambiamenti al sistema pubblico ma anche al mondo della cooperazione sociale che eroga servizi per le persone con disabilità. Quali sono le sfide? Come prepararsi a vincerle? In dialogo con Marco Bollani e Stefano Granata
di Sara De Carli

Il decreto c’è, il numero 62 del 3 maggio 2024, e per una volta tutti sono concordi nel definire le novità introdotte come “epocali”. E ora – a brevissima distanza – è arrivato pure l’elenco delle nove province da cui questa rivoluzione partirà: si tratta di Brescia, Catanzaro, Firenze, Forlì-Cesena, Frosinone, Perugia, Salerno, Sassari e Trieste.  Il 1° gennaio 2025 le persone con disabilità di queste province sperimenteranno il nuovo sistema di accertamento dell’invalidità civile e della disabilità e della conseguente presa in carico attraverso il “Progetto di vita”. Abbiamo chiesto a due cooperatori sociali di lungo corso, Marco Bollani (direttore della cooperativa Sociale Come NOI, tecnico fiduciario Anffas e consulente Spazio Aperto Servizi) e Stefano Granata (presidente di Confcooperative Federsolidarietà), il loro punto vista sull’imminente avvio della sperimentazione. 

Ovviamente c’è molta attesa da parte delle persone con disabilità e delle loro famiglie.  Da parte degli operatori? Più attesa o timore?

Stefano Granata: C’è molta attesa anche da parte della cooperazione sociale ed è molto importante che a pochi giorni dal varo del decreto siano già state rese note le nove province individuate dal ministero per attuare la sperimentazione. C’è attesa perché questo provvedimento interessa migliaia di persone seguite e accompagnate dalle cooperative sociali su tutto il territorio nazionale e interpella tutto il mondo del Terzo settore – in particolare chi gestisce servizi e interventi di varia natura sociale e socio sanitaria – a ripensare i modelli di intervento per renderli sempre più personalizzabili e coerenti con le aspettative di vita delle persone. Dal nostro punto di vista si tratta di una sfida importante per il mondo della cooperazione sociale di tutto il Paese per proseguire e consolidare i percorsi di innovazione sociale che molte cooperative stanno già sperimentando sui territori. Ma si tratta di una sfida anche e soprattutto per le istituzioni, per sostenere questi percorsi innovativi ed innescare o consolidare percorsi generativi di un nuovo welfare.

Quali sono gli elementi a cui prestare particolare attenzione?   

Stefano Granata: Gli elementi di attenzione decisivi, in questa fase di avvio della sperimentazione, mi sembrano due. Il primo riguarda l’integrazione interistituzionale territoriale, premessa indispensabile per costruire quell’infrastruttura di servizio sociale che è necessaria per rendere operativa la costruzione partecipata dei progetti di vita con un coinvolgimento attivo e non subalterno del Terzo settore. Le istituzioni territoriali devono lavorare insieme. Il Comune e l’ambito del Piano di Zona, i distretti sanitari e le agenzie territoriali della salute devono costruire delle procedure integrate coinvolgendo le realtà di Terzo settore per disegnare insieme la proceduralizzazione prevista dal decreto. Se possibile, anzi, nel disegno di queste nuove procedure occorrerebbe valorizzare i processi già in atto, che stanno già lavorando sui progetti di vita: ad esempio nell’ambito delle azioni previste dal Pnrr per le coabitazioni per il “Dopo di Noi” e per i Progetti “Pro.Vi” di vita indipendente.

Il secondo nodo cruciale qual è?

Stefano Granata: Il secondo elemento di attenzione è rappresentato dalla capacità degli attori territoriali di costruire una cornice condivisa di intenti a livello locale, rispetto a come applicare il decreto e quali obiettivi prefissarsi. Io faccio molta fatica ad immaginare un processo applicativo “standardizzabile” ed in un certo senso “a-settico”, che prescinda da una chiara e condivisa visione di politica sociale e socio sanitaria territoriale. Per questo penso che già a partire dalle sperimentazioni sia importante che ogni territorio espliciti gli obiettivi e le scelte di politica sociale verso cui tendere attraverso l’applicazione del decreto 62/2024. Dove vogliamo portare il sistema attuale, attraverso l’applicazione del decreto? Quali impatti ci aspettiamo e verso quali obiettivi ci indirizziamo  rispetto ad esempio al sistema di funzionamento dei servizi attualmente vigenti?  Come intendiamo ri-declinare operativamente il ruolo, la funzione e il mandato dei Comuni rispetto all’architettura della presa in carico che sostiene i percorsi della vita e per la vita delle persone con disabilità attraverso la costruzione dei progetti personalizzati? Quali priorità possiamo darci a livello territoriale rispetto a questo primo sperimentale sforzo applicativo? In estrema sintesi, io intravedo la possibilità che attraverso le prime sperimentazioni non emergano solo nuove procedure da costruire e realizzare insieme ma anche nuove scelte di politica sociale e socio-sanitaria territoriale. 

Bollani, lei ha una esperienza sul campo specifica rispetto ai servizi innovativi per le persone con disabilità (in particolare penso al dopo di noi) e sui progetti di vita indipendente. Che sfide vede?

Marco Bollani: Personalmente la mia esperienza sul campo nell’accompagnamento di molte persone con disabilità e dei loro familiari nella costruzione di percorsi per la vita adulta indipendente mi porta ad intravedere almeno quattro sfide di grande interesse per le organizzazioni di Terzo settore che si occupano di advocacy e di gestione di servizi e interventi di varia natura a sostegno delle persone con disabilità. La prima sfida è culturale e pedagogica: inserire la parola “vita” con il significato di un orizzonte progettuale nella locuzione “Progetto di Vita” è molto più che una procedura ed è molto più ricco che non dire “PEI-Progetto educativo individuale”. La sfida per noi operatori, noi servizi e noi organizzazioni è prima di tutto questa: riflettere sui percorsi per “la mia” vita adulta di ciascuna persona con disabilità che si rivolge a noi.Se non assumiamo questa sfida, le ragioni del decreto 62/2024 prima ancora che le sue modalità applicative saranno molto difficili da realizzare. 

Veniamo alla seconda sfida.

Marco Bollani: La seconda sfida ha a che fare con la possibilità di rimettere in moto un meccanismo di ri-sussidiarizzazione delle politiche sociali e socio sanitarie territoriali. Che significa sostanzialmente lavorare attraverso una strategia territoriale di co-programmazione degli interventi coinvolgendo attivamente il Terzo settore sia nella lettura dei bisogni di un territorio sia nella scelta delle priorità di intervento e dei modelli di intervento funzionali a tali risposte, valorizzando le esperienze di cambiamento già avviate su diversi territori ed in particolare quelle esperienze in cui i servizi e le istituzioni hanno lavorato insieme sia per allargare la capacità di risposta a livello territoriale sia per cambiarle. Proprio a partire da questi sforzi ri-generativi territoriali è possibile “portare in dote” ai livelli regionali e nazionali i risultati conseguiti, in modo da orientare il processo trasformativo in atto. 

A proposito di territori… Lei conosce bene quello di Brescia, che è una delle province scelte dalla ministra Locatelli per l’avvio della sperimentazione.

Brescia è la provincia scelta per la sperimentazione in Lombardia, il territorio che conosco e dove si svolge la maggior parte del mio lavoro e il fatto che sia stata scelta per la sperimentazione mi sembra davvero importante ed emblematico. Sul territorio bresciano sono presenti un Terzo settore molto qualificato, una rete di enti gestori strutturatasi negli ultimi anni proprio per collaborare sui temi del cambiamento dei servizi ed esiste già anche un dialogo avanzato tra agenzia territoriale della salute e ambiti sociali dei comuni. Questi tre asset saranno decisivi per impostare da subito un lavoro molto interessante nell’applicazione del decreto 62. 

Commentando il decreto, tanto la ministra Locatelli quanto le associazioni che rappresentano le persone con disabilità hanno sottolineato il passaggio da un welfare centrato sull’offerta esistente a un sistema che metterà al centro la persona con i suoi desideri. Non per nulla abbiamo enfatizzato l’importanza – forse inizialmente con poche risorse, ma comunque un segno – del fondo da 25 milioni di euro per finanziare gli interventi fuori dall’offerta standard dei territori… Dal punto di vista di chi gestisce i servizi, questa sfida come sarà?

La terza sfida che intravedo è tutta interna al mondo delle imprese sociali che gestiscono i servizi.  Riguarda proprio la capacità di superare la logica di essere enti erogatori di prestazioni verso una logica di impresa sociale nuova, di enti che co-gestiscono i servizi insieme alle istituzioni le politiche sociali e socio sanitarie. Orientando le strategie gestionali e di governo sempre di più verso processi di amministrazione condivisa del welfare locale e territoriale, insieme agli enti locali. Un approccio di impresa sociale che non costituisce solo un antidoto alla crescente prestazionalizzazione degli interventi e alla monetarizzazione delle risposte, ma rappresenta anche un’alternativa valida ai meccanismi dello scambio tra prestazioni e corrispettivi tipici del mercato tout court che mi sembra siano molto limitanti rispetto alla regolazione e alla gestione di servizi e interventi di sostegno necessari per garantire livelli essenziali di assistenza (sociali o socio-sanitari) attraverso la realizzazione di nuovi percorsi di vita. C’è poco da comprare insomma. E più da costruire insieme corresponsabilmente.  

Sicuramente un cambiamento di tale portata dovrà essere anche accompagnato da una informazione/comunicazione adeguata. Perché sempre più spesso mi capita di vedere il rischio che tra le analisi fatte dagli esperti o dagli operatori – e che magari hanno correttamente portato a fare determinate scelte di disegno delle politiche – e gli effetti pratici delle norme… ci sia una distanza crescente. Come se la teoria fosse tutta giusta… ma la pratica poi andasse da tutta un’altra parte. Ovvio che poi le persone siano disorientate.

Stefano Granata: Concordo. Serve uno sforzo comunicativo importante da parte di tutto il sistema pubblico e del privato sociale. Per giocare fino in fondo questa partita occorre presidiare anche il tema della sua rappresentazione culturale e uscire velocemente da rappresentazioni e narrazioni a mio avviso errate, del tipo “o il progetto o il servizio”. Dobbiamo entrare in una nuova dimensione dialogica, in cui il tema del progetto di vita si declina a partire dalla domanda “quali servizi per quali progetti per quale vita” e “quale cittadinanza e appartenenza delle persone alla propria comunità”. Non è solo uno sforzo comunicativo. È anche una fatica di pensiero. Forse dobbiamo impegnarci di più a promuovere un nuovo pensiero sui temi dell’inclusione, dell’appartenenza e del benessere per le persone in condizione di disabilità.  

Marco Bollani: È vero, dobbiamo impegnarci di più sul tema della comunicazione: non basta dire inclusione! Non basta dire progetto o benessere o appartenenza. Soprattutto se diciamo “Progetto di Vita”! Io tra l’altro preferisco dire progetti “per” la vita… Non basta una parola insomma, serve un nuovo discorso sia sui percorsi per la vita con lo sguardo specifico di cui ogni persona è portatrice a partire dal proprio  vissuto e dalle proprie aspettative, sia sulle esperienze di riqualificazione di molti servizi e molte organizzazioni che sono riuscite a trasformare le proprie risposte più o meno standardizzate – anche quelle rivolte a persone con necessità di sostegno più elevate – proprio a partire dalle scelte personali per disegnare e sostenere nuovi percorsi di accompagnamento alla vita. Alla vita, appunto, quell’esperienza – come diceva Jonh Lennon – che scorre via mentre siamo tutti indaffarati a fare altri progetti. 

 

 

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