È di pochi giorni fa la notizia dell’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di 10 operatori del Centro di educazione motoria-Cem di Croce Rossa, nella Capitale: cinque di essi sono accusati di tortura e altri cinque di maltrattamenti a pazienti e persone con disabilità. Tra i primi ad intervenire su questo caso, Vincenzo Falabella, presidente Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap-Fish. «Questo grave evento si aggiunge ad una lunga serie di abusi, violenze, vessazioni che segnalano l’urgente necessità di un cambiamento strutturale nel sistema assistenziale», ha scritto in una nota. E aggiunge: «Occorre che la politica tutta si assuma le adeguate responsabilità, chiediamo da subito l’avvio di un dialogo per trasformare le strutture segreganti in soluzioni abitative basate sulla coabitazione e sul progetto di vita, con un piano di transizione chiaro e scadenze definite».
Falabella, può spiegarci più concretamente che tipo di soluzioni abitative immagina e come si potrebbe realizzare il passaggio?
Episodi come quello di Roma dimostrano che il modello assistenziale attuale è obsoleto e irrispettoso della dignità e dei diritti fondamentali delle persone. Ci sono due aspetti fondamentali nella proposta che abbiamo avanzato. Prima di tutto, il “dopo di noi” come immaginato all’interno della legge n. 112 del 2016 presuppone che le strutture residenziali debbano riprodurre quanto più possibile l’ambiente familiare. Quindi, non devono esistere strutture in cui prevale l’aspetto sanitario, ma strutture nelle quali prevale l’aspetto sociale. Occorre cambiare completamente approccio rispetto a tante delle strutture oggi esistenti, passando dalla sanitarizzazione alla socializzazione.
Il secondo aspetto?
Riguarda il progetto di vita personalizzato e partecipato, il “progetto di vita indipendente”. Il decreto legge n. 62 (del 3 maggio 2024, ndr), la grande riforma sulla disabilità, pone al centro del dibattito la possibilità per le persone con disabilità di costruire il proprio progetto di vita. Se il progetto di vita della persona con disabilità è di stare all’interno di queste strutture, dobbiamo modificarle e renderle quanto più rispondenti ai bisogni oggettivi e soggettivi degli ospiti. Il progetto di vita della persona deve essere il faro su cui costruire l’intervento all’interno della struttura.
Ci spieghi meglio.
Bisogna cambiare radicalmente gli obiettivi. Le strutture non devono essere standardizzate, non sono le persone a dover adeguarsi agli orari, agli interventi, alle valutazioni, ai sostegni. Ma sono le strutture che devono mettere in piedi tutta una serie di interventi armonici, modulari e trasversali che vadano a soddisfare i bisogni delle persone, che sono tutti differenti. Il progetto di vita è questo. Credo che questo possa essere l’elemento innovatore per non far chiudere queste strutture, per non renderle più segreganti. Occorre rendere le strutture aperte, direi spalancate, facilmente visitabili a tutti, in modo che non si creino luoghi del terrore. Poi c’è sicuramente un elemento deterrente.
Quale?
Una proposta di legge passata alla Camera, ora è ferma al Senato, riguarda le telecamere all’interno di queste strutture. Non si capisce perché vengano installate per rilevare la violazione al codice della strada, ma non vengano ancora usate nelle strutture, anche come deterrente. Sollecitiamo la politica affinché il percorso di questa proposta di legge possa trovare applicazione definitiva nel secondo ramo del Parlamento in maniera tale che le strutture possano consentire una visione rispetto ad un operatore che può commettere delle violazioni.
Per quanto riguarda i tempi?
Visto che si tratta di una transizione verso una sostanziale modifica delle attuali strutture, non possiamo che prevedere tempi certi. Ossia, la legge delega sulla disabilità del 2026, che dovrà essere applicata su tutto il territorio nazionale. Dal 2026 al 2028 abbiamo due anni di tempo durante i quali deve avvenire la transizione di queste strutture. Da strutture in cui prevale l’aspetto sanitarizzante bisogna andare verso la direzione di strutture che possono armonizzare una serie di interventi, che devono soddisfare la pluralità dei bisogni dei cittadini e delle cittadine con disabilità e che decidono di vivere in determinate strutture. Le “scadenze definite” sono date anche da quei principi che sono interni al regolamento della legge 112 del 22 giugno 2016. Quando parliamo del “dopo di noi”, lì ci sono già elementi innovatori che possono essere utilizzati per le strutture residenziali per persone con disabilità. Poi c’è un altro aspetto fondamentale, quando parlo di coabitazione.
Quale?
Occorre abbassare il numero degli ospiti nei vari settori della struttura. Non possiamo più avere strutture con 50 ospiti, ma sono necessarie strutture con modulazioni differenti, con un massimo di cinque ospiti a modulo. Se una struttura, ad esempio, ha 10 moduli avrà 50 posti che non saranno complessivi ma saranno 10 moduli da cinque. Ciò significa andare più vicino possibile all’idea che quel modulo possa riprodurre l’ambiente familiare.
Può indicarci dei modelli da seguire?
Le Rsa e le Rsd sono nate da una cultura ormai superata. Ma abbiamo delle buone prassi di case comunità e case famiglia, dove vivono quattro, cinque, sei persone con disabilità e queste sono il frutto della capacità del movimento associativo che ha recepito la cultura dell’inclusione, del dare risposte da un punto di vista sociale e non solo da uno sanitario. E quindi è riuscito a mettere in campo sul territorio nazionale alcune buone prassi.
Per quanto riguarda le risorse necessarie?
Quest’intervento necessita di risorse importanti, ma fondamentalmente avrebbe una ricaduta completa anche in un risparmio del fondo sanitario nazionale. Tutta qui sta la partita, che si gioca nell’investimento in un accreditamento che possa garantire alle strutture di risparmiare anche in termini sanitari a favore del sociale in maniera tale che possiamo costruire luoghi veramente aggreganti e non posti in cui si possono verificare determinate situazioni.
In cosa bisogna investire?
In formazione, in personale e avere una capacità di controllo in quello che il personale mette in atto all’interno delle strutture stesse. Una volta si diceva: «Chiudiamo le strutture e consentiamo alle persone di vivere a casa». Questo, chiaramente, è l’obiettivo. Ma ci siamo resi conto, negli ultimi anni, che alcune persone vogliono poter scegliere. E siccome la libertà di scegliere il progetto di vita è della persona, nella misura in cui la persona vuole vivere in una struttura dobbiamo poter soddisfare anche questo bisogno.
“Istituzionalizzazione”, secondo lei, è sinonimo di strutture segreganti?
No. La parola istituzionalizzazione presuppone, come dice la parola stessa, che la persona fa uso di una struttura pubblica. Non è l’istituzionalizzazione a rendere segregante una struttura. Le strutture segreganti annientano la dignità delle persone, mentre possono esserci delle strutture che valorizzano la dignità della persona. Quindi, messi sullo stesso piatto della bilancia, i centri di Roma cosiddetti ex art. 26 (Legge 833/78, ndr), vanno in questa direzione. Come ci sono ex art. 26 che valorizzano la persona, ci sono strutture ex art. 26 che ghettizzano la persona e quelle sono strutture segreganti. Nel momento in cui si annienta la dignità della persona, quella struttura è segregante e andrebbe messa al bando. Ma ci sono delle strutture che rispondono a dei bisogni oggettivi. Le famiglie non sempre riescono a tenere a casa il proprio familiare, perché ci sono una serie di interventi che la famiglia da sola non riesce a soddisfare. Per com’è oggi il sistema welfare, non garantisce una risposta ai bisogni di ogni persona.
In molti casi le strutture possono andare incontro alle esigenze della persona con disabilità.
Sì, ma non basta rispondere a determinate richieste per dire che la struttura è in linea con gli standard, il rispetto della vita della persona. Se una struttura poi non è aperta, non consente ai familiari di entrare, questo presuppone il venir meno del vincolo affettivo che l’ospite potrebbe avere e che gli è negato dall’organizzazione interna della struttura. Ripeto, occorre realizzare e organizzare delle strutture che abbiano come fine ultimo il riconoscimento della piena dignità della persona, andando oltre quegli schemi standardizzanti organizzativi interni della struttura stessa. Molto spesso si fa prevalere l’organizzazione della struttura rispetto al soddisfacimento dei bisogni della persona: dobbiamo mettere al centro la persona e il suo progetto di vita. Ogni persona deve poter vivere in una struttura seguendo i propri obiettivi, non deve essere un semplice ospite, ma deve poter mantenere in piedi delle relazioni con familiari, amici, conoscenti e la struttura deve consentirlo. Oggi questo non accade. È necessario un cambiamento radicale in questa direzione: mettere davanti a tutto gli obiettivi di vita degli ospiti e successivamente calare l’organizzazione sulla base degli interventi volti al soddisfacimento di questi bisogni.
Qualche esempio?
Se una persona che vive in una struttura vuole ricevere una visita alle ore 21, la struttura lo deve consentire. Se c’è una partita di calcio trasmessa alle 22 e un ospite la vuole vedere, deve essere messo nelle condizioni di farlo. Stiamo parlando della vita delle persone e non va adeguata al rispetto degli orari o dei turni degli operatori.
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