Quando incrocio lo sguardo di mio figlio Damiano, che ha la sindrome di Down, me lo ripeto ogni volta: c’è bisogno di agire per rendere la vita dei nostri ragazzi libera e attiva. Libera di crescere e libera di esprimersi.
Sono molti i ragazzi come Damiano che vivono una vita perennemente strutturata. Sono quasi sempre accompagnati, continuamente supportati dalla famiglia o da un servizio che dia loro l’opportunità di sperimentarsi, di vivere. L’attenzione verso la persona disabile mi fa venire in mente il pedagogista Giuseppe Bertagna nel volume Per una scuola dell’inclusione quando ci ricorda, attraverso S. Baumann, che l’intera storia dell’umanità testimonia l’attenzione verso l’altro, la cura dell’altro. Da sempre. Ma allora, “inclusione” cosa è?
Un sufficiente numero di volte
Entriamo nella vita quotidiana con un esempio. Perché un ragazzo con grave disabilità intellettiva all’età di vent’anni ancora non è in grado di attraversare la strada? O di prendere un autobus? La causa è forse data da una specifica incapacità di guardare velocemente a destra e a sinistra? O di ricordarsi a quale fermata deve scendere? Di riuscire a fissare riferimenti visivi? Certamente no. Secondo la mia esperienza di genitore, ho capito che dipende da quante volte egli percorre quella determinata strada, così da memorizzare tutte quelle piccole difficoltà che lungo la strada incontra e le relative soluzioni per superarle. Se dopo un anno Damiano – o chi per lui – ancora non ha imparato ad attraversare la strada, probabilmente è perché non gli capita abbastanza spesso di fare quel percorso. E perché questo non accade? Spesso perché non c’è fisicamente chi possa aiutarlo a comprendere e superare le difficoltà che incontra per un numero di volte sufficiente a fargli memorizzare quelle difficoltà e le relative soluzioni.
Dal fare esercizio al fare esperienza
Alla fine si tratta semplicemente di fare esercizio, ma non è un esercizio “strutturato”. Non si tratta di ripetere passo passo una sequenza, come se imparassimo una filastrocca a memoria. Il punto è considerare quell’esercizio come “esperienza ordinaria”, quella che in pratica facciamo tutti. Basti pensare alle dinamiche di apprendimento di un bambino e poi cambiare alcuni parametri: a cominciare dal “più tempo” per imparare ma anche dal tenere in considerazione allo stesso tempo quel ragazzo non ha l’età di un bambino, è un ventenne.
Il ciclo allora potrebbe essere descritto come segue: l’esercizio che diventa esperienza e che quindi produce competenza. In questo modo l’acquisizione di una competenza viene vissuta come spontanea, naturale. Si tratta di una distinzione concettuale da tener ferma, altrimenti sfugge un aspetto dell’esclusione delle persone con disabilità intellettiva: se vengono guidati in ogni azione quotidiana non possono sviluppare una propria autonomia. Devono poter sbagliare e capire come correggersi.
Il compito (se così si può dire) di chi gli sta accanto, non è quello di sostituirsi, di fare per lui ciò che non è in grado di fare, ma aiutarlo a riflettere sulle scelte e le conseguenze. Potrebbe sembrare una cosa complicata, ma non lo è: sono necessari tempo e pazienza, perché solitamente la differenza sta proprio nei cosiddetti tempi di apprendimento.
Il perimetro delle occasioni
Per i nostri figli con disabilità, la maggior parte delle occasioni di fare una sana esperienza sono confinate nel perimetro della famiglia, negli sporadici incontri con i parenti o i purtroppo rari amici che li invitano per una cena o per un cinema. Difficile immaginare quanto pesi nelle persone con disabilità la condanna a una vita che si svolge dentro una sequenza di azioni sempre uguale e ripetitiva. Si forma così, sebbene in modo non voluto da nessuno, un grave ostacolo alla crescita, all’autostima, al desiderio di fare nuove esperienze. Non basta solo l’amore e la solidarietà, le persone con disabilità intellettiva vanno ascoltate, guardate negli occhi: dentro ci sono emozioni e sentimenti come per ognuno.
Quando Damiano, con il suo sorriso e con lo sguardo da disabile intellettivo, avvicina un compagno di scuola… ebbene la risposta spesso è superficiale, di sola accettazione. E in molti casi egli riceve indifferenza, quando non rischia il bullismo. Per un cambiamento morale e culturale non sono sufficienti le leggi (che pure non mancano) e non è mai abbastanza l’attenzione che si dedica all’educazione che promuove l’inclusione. Va promossa anche l’esperienza dell’inclusione, che non si può rivolgere solo alle persone con disabilità, ma che deve rivolgersi a tutti: anche ai “non disabili”.
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