L’abilismo è l’atteggiamento discriminatorio nei confronti delle persone con disabilità, ma può anche essere definito come un sistema oppressivo che colpisce le persone con disabilità stesse. Ogni forma di oppressione, però, abilismo compreso, può essere combattuta in modo efficace solo considerando la persona nella sua interezza. Vediamo dunque che cosa si intende esattamente con il concetto di “intersezionalità”, come esso è stato elaborato all’interno dei femminismi e perché alle persone con disabilità può tornare utile prenderlo in prestito
«L’abilismo è l’atteggiamento discriminatorio nei confronti delle persone con disabilità»: è questa la definizione di abilismo riportata nella sezione Neologismi del sito dell’Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani. Ma l’abilismo può essere definito anche come un sistema oppressivo che colpisce le persone con disabilità. Definirlo come tale offre il vantaggio di poter attingere, pur con i dovuti adattamenti, alle competenze e agli strumenti maturati e predisposti in relazione ad altri sistemi oppressivi.
Sotto questo profilo si rivela particolarmente prezioso lo sterminato lavoro prodotto nell’àmbito dei femminismi e uno degli strumenti che possiamo prendere in prestito da essi è certamente il concetto di intersezionalità. Vediamo di cosa si tratta e perché può tornare utile alle persone con disabilità.
Nel 1976 Emma DeGraffenreid, una madre lavoratrice afroamericana, e altre quattro donne di colore fecero causa alla General Motors Corporation perché la società non assumeva donne nere da un decennio. Infatti la General Motors assumeva donne (bianche) e anche persone afro-americane (uomini), ma non donne di colore. Questa circostanza permise ai giudici di escludere che si trattasse di un episodio discriminatorio, dal momento che il semplice fatto di essere donne nere non poteva essere considerato una ragione sufficiente per richiede un trattamento speciale.
Il “Caso DeGraffenreid” ebbe il merito di mostrare la particolare situazione in cui può venirsi a trovare chi, per le proprie caratteristiche o la propria esperienza di vita, sperimenta simultaneamente più di una condizione di svantaggio sociale particolare, uno svantaggio non riducibile alla semplice somma delle discriminazioni di cui si compone.
Fu proprio riflettendo su questo e su altri casi giudiziari riguardanti episodi discriminatori nei confronti delle donne di colore che, in un celebre articolo del 1989 (1), Kimberlé Williams Crenshaw, attivista e giurista statunitense nata nel 1959, propose di utilizzare il termine intersezionalità per descrivere l’intreccio di oppressioni che deriva dalla sovrapposizione o intersezione di diverse identità sociali nella stessa persona.
Crenshaw sosteneva in sostanza che l’esperienza delle donne di colore potesse essere adeguatamente descritta e affrontata solo considerando insieme la discriminazione di genere e quella razziale. Ma ancor prima che lei avanzasse la sua proposta, una riflessione implicita sull’intersezionalità era già presente nel femminismo nero e nel movimento antischiavista del diciannovesimo secolo, e probabilmente si possono trovare tracce ancora precedenti (2).
Una visione anticipatrice di quello che prenderà il nome di femminismo intersezionale si può trovare, ad esempio, anche in Audre Lorde (1934-1992), la poetessa di Harlem (New York), che amava autodefinirsi «nera, lesbica, madre, guerriera, poeta» (3), una lista di identità alla quale, se i tempi culturali fossero stati maturi, avrebbe potuto aggiungere anche quella di disabile, giacché aveva manifestato un deficit visivo sin dalla tenera età. Con quell’elenco di caratteristiche Lorde intendeva significare che nessun termine era sufficiente a definirla compiutamente, giacché lei è sempre stata tante cose insieme.
Per spiegare che l’oppressione e la discriminazione subita dalle donne nere non può essere compresa considerando in modo separato le variabili del genere e della razza, Crenshaw utilizza la metafora dell’incrocio stradale, individuando nell’intreccio delle diverse identità «[…] un’analogia con il traffico di un incrocio [di strade], che viene e va in tutte e quattro le direzioni. Così, la discriminazione può scorrere nell’una e nell’altra direzione. E se un incidente accade in corrispondenza di un incrocio, può essere stato causato dalle macchine che viaggiavano in una qualsiasi delle direzioni e, qualche volta, da tutte. Allo stesso modo, se una donna nera si fa male a un incrocio, il suo infortunio potrebbe derivare dalla discriminazione sessuale o dalla discriminazione razziale […]. Ma non è sempre facile ricostruire un incidente: a volte i segni della frenata e le lesioni semplicemente stanno a indicare che questi due eventi sono avvenuti simultaneamente; dicendo poco su quale conducente abbia causato il danno» (4).
Ovviamente il campo di applicazione dell’intersezionalità non riguarda le sole due variabili del genere e della razza/etnia, e nel contrasto all’oppressione è necessario considerare insieme tutte le categorie che stanno alla base delle diseguaglianze sociali, dunque, oltre al genere e alla razza/etnia, anche l’età, la nazionalità, l’orientamento sessuale, la disabilità, la classe sociale, la religione, la casta, la cultura, l’educazione e altre caratteristiche che possono essere simultaneamente presenti e che interagiscono a molteplici livelli. Detto in termini ancora più chiari, ogni forma di oppressione (e dunque anche l’abilismo) può essere combattuta in modo efficace solo considerando la persona nella sua interezza.
La necessità di essere considerati nella propria interezza è stata espressa in modo molto efficace da Dianne Pothier (1954–2017), docente di diritto e attivista canadese con una disabilità visiva dovuta all’albinismo, quando ha scritto: «Non posso mai subire discriminazioni di genere se non come persona con disabilità; non posso mai subire discriminazioni per la disabilità se non come donna. Non posso disaggregarmi né può farlo chiunque possa discriminarmi. Non mi inserisco in scatole separate di motivi di discriminazione. Anche quando sembra essere rilevante un solo motivo di discriminazione, i suoi effetti riguardano la mia persona nella sua interezza» (5).
Pothier ha messo in evidenza una delle maggiori difficoltà con cui ancora oggi si scontrano le persone soggette a discriminazioni multiple, quella di venire “smembrate” e incasellate in «scatole separate di motivi di discriminazione». Infatti l’associazionismo delle persone con disabilità ha iniziato ad occuparsi anche di questioni di genere solo in tempi relativamente recenti, e anche quello delle donne solo ultimamente sta iniziando a prendere in considerazione la situazione di discriminazione multipla cui sono esposte le donne con disabilità. E analoghe osservazioni si possono fare anche per altre discriminazioni multiple sperimentate, ad esempio, dalle persone con disabilità immigrate, o appartenenti alla comunità LGBTQIA+ (Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transessuali, Queer, Intersessuali e Asessuali).
Il concetto di intersezionalità ha avuto una discreta fortuna influenzando in modo significativo l’approccio alle disuguaglianze. Nel nostro Paese, ad esempio, si deve ad un’intuizione di tipo intersezionale se nel 2018, all’interno del Rapporto delle associazioni di donne sull’attuazione della Convenzione di Istanbul in Italia (Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica), hanno trovato spazio anche le esigenze delle donne con disabilità vittime di violenza (se ne legga su queste stesse pagine); esigenze che poi sono state recepite nel primo Rapporto di valutazione sulla situazione italiana pubblicato nel gennaio 2020 dal GREVIO (il Gruppo di esperti/e indipendenti responsabile del monitoraggio dell’attuazione Convenzione di Istanbul) (se ne legga su queste stesse pagine).
Sotto questo profilo è molto interessante anche il cosiddetto “Disegno di Legge Zan” (Misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità), che ancora non ha concluso il suo iter parlamentare. Il fatto che in esso, sebbene in un momento successivo, sia stato inserito anche il contrasto alla discriminazione e alla violenza nei confronti delle persone con disabilità si presta a due tipi di letture: da un lato esso esplicita la volontà di contrastare i deferenti motivi di discriminazione, e dall’altro suggerisce che la lotta alle differenti forme di discriminazione vada condotta in modo trasversale. Comunque lo si voglia intendere, le persone con disabilità hanno solo da guadagnarci.
Responsabile di Informare un’H-Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli, Peccioli (Pisa), nel cui sito questo approfondimento è già apparso. Viene qui ripreso, con alcuni riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.
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