La premessa iniziale è semplicemente il secondo comma dell’articolo 15 della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, ove si scrive che «gli Stati Parti adottano tutte le misure legislative, amministrative, giudiziarie o di altra natura idonee ad impedire che persone con disabilità, su base di uguaglianza con gli altri, siano sottoposte a tortura, a pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti».
«Pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti», sottolineiamo.
La seconda premessa fa riferimento al fatto che la Repubblica di Singapore ha ratificato la Convenzione ONU, assumendola pertanto quale propria Legge, il 18 luglio 2013.
E ora la drammatica vicenda, letta qualche giorno fa nel sito di «The Guardian».
Dopo dodici anni trascorsi nel braccio della morte di un carcere di Singapore, il giovane cittadino malese Nagaenthran K Dharmalingam, persona con accertata disabilità intellettiva, avrebbe dovuto essere giustiziato proprio oggi, 10 novembre, essendo stato condannato a morte per contrabbando di eroina, alla luce delle severissime norme in questo àmbito, applicate dalla Città-Stato orientale.
L’Alta Corte locale ha però sospeso l’esecuzione, soprattutto a seguito delle pressioni e delle manifestazioni promosse da varie organizzazioni internazionali che si battono per i diritti umani. Queste ultime, a partire da Human Rights Watch, hanno esibito prove certe sul fatto che Dharmalingam, oltre ad essere una persona con grave disabilità intellettiva, sia stato costretto a trasportare droga, quando aveva 21 anni, in quanto vittima del traffico di esseri umani.
In realtà, alcuni emendamenti approvati nel 2014 concederebbero all’Alta Corte di Singapore un buon margine di discrezionalità nel commutare in ergastolo una condanna a morte, nei casi in cui «l’imputato soffra di una tale anomalia mentale da comprometterne sostanzialmente la responsabilità mentale per i suoi atti e omissioni in relazione al reato». Dal canto suo, l’avvocato che difende il giovane ha sottolineato che l’esecuzione di Dharmalingam, «un uomo con gravi difficoltà di apprendimento», violerebbe la Costituzione stessa di Singapore.
Per quanto poi riguarda le entità più impegnate su questa situazione, oltre allo stesso Governo della Malaysia, che ha chiesto clemenza per il proprio cittadino, vi sono la già citata Human Rights Watch, l ADPAN (Anti–Death Penalty Asia Network, ovvero la Rete Asiatica contro la pena di morte) e Amnesty International.
Per quest’ultima, ad esempio, la ricercatrice Rachel Chhoa-Howard ha dichiarato: «Togliere la vita alle persone è di per sé un atto crudele, ma impiccare una persona condannata per spaccio di droga, che potrebbe anche non capire esattamente cosa gli sta succedendo, è semplicemente spregevole».
Anche l’Unione Europea ha fatto sentire la propria voce, così come un gruppo di parlamentari britannici, che ha scritto alla propria Ministra degli Esteri Liz Truss, chiedendole di presentare urgenti dichiarazioni alla sua controparte a Singapore, «esortando a garantire che una vittima di tratta con disabilità intellettiva non venga giustiziata, a causa di quello che potrebbe essere un grave errore giudiziario».
Per il momento, dunque, l’Alta Corte di Singapore ha sospeso l’esecuzione, in attesa dell’udienza di un ricorso alla Corte d’Appello, rispetto al quale non è affatto chiaro quando si svolgerà la relativa udienza. Nel frattempo, però, il Ministro degli Interni del Paese non ha mancato di affermare che a Dharmalingam sarebbe stato «accordato un pieno processo equo ai sensi della Legge, con un consulente legale che lo ha rappresentato durante tutto il processo» e che «la sua richiesta di clemenza al Presidente non è andata a buon fine».
E torniamo alle premesse iniziali: Singapore ha ratificato otto anni fa la Convenzione ONU, come detto, assumendo quindi tra le proprie norme il fatto di «impedire pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti» nei confronti delle persone con disabilità. Lo ha fatto però rendendo pubbliche alcune riserve una delle quali dice esattamente questo: «La Repubblica di Singapore si riserva il diritto di continuare ad applicare il suo attuale quadro legislativo in luogo del riesame periodico di cui all’articolo 12, paragrafo 4 della Convenzione». E quest’ultimo comma, sostanzialmente aggirato da tale riserva, recita così: «Gli Stati Parti assicurano che tutte le misure relative all’esercizio della capacità giuridica forniscano adeguate ed efficaci garanzie per prevenire abusi in conformità alle norme internazionali sui diritti umani. Tali garanzie devono assicurare che le misure relative all’esercizio della capacità giuridica rispettino i diritti, la volontà e le preferenze della persona, che siano scevre da ogni conflitto di interesse e da ogni influenza indebita, che siano proporzionate e adatte alle condizioni della persona, che siano applicate per il più breve tempo possibile e siano soggette a periodica revisione da parte di una autorità competente, indipendente ed imparziale o di un organo giudiziario. Queste garanzie devono essere proporzionate al grado in cui le suddette misure incidono sui diritti e sugli interessi delle persone».
Siamo quindi visibilmente di fronte a uno di quei casi a suo tempo evidenziati su queste stesse pagine, nel nostro articolo intitolato Quando le riserve ostacolano la reale applicazione della Convenzione ONU, all’interno del quale avevamo riportato, ad esempio, le parole di Laura Grimaldi, riprese dal sito Iusininitere.it, ovvero che «i Trattati Internazionali sui Diritti Umani, pur venendo ratificati dalla maggior parte degli Stati, non consentono un’applicazione universale degli stessi diritti umani che mirano a tutelare. Proprio l’istituto della riserva, infatti, rende possibile, nella pratica, che alcuni Stati adottino delle leggi nazionali in palese contrasto con le norme dei Trattati. L’istituto della riserva, pertanto, costituisce tutt’ora uno dei principali ostacoli ad un’effettiva protezione dei diritti umani a livello internazionale e universale».
Questo, dunque, a livello giuridico. Per il resto anche «Superando.it» si schiera a fianco di organizzazioni quali Human Rights Watch e Amnesty International, per chiedere un ripensamento immediato, da parte dello Stato di Singapore, sulla condanna inflitta a Nagaenthran K Dharmalingam, e che cessino sin da subito in tutto il mondo, e non certo solo a Singapore, orrori come quello da lui vissuto. (Stefano Borgato)
Ringraziamo Giovanni Merlo per la collaborazione.