Parte significativa del nostro sistema di welfare per le persone con disabilità si basa sulla separazione. Un assunto che non viene quasi mai messo in discussione.
Una parte significativa del nostro sistema di welfare sociale per le persone con disabilità, quelli che in genere chiamiamo “servizi”, si basa sulla separazione. I centri diurni e i servizi residenziali, variamente denominati, si possono tranquillamente rappresentare come dei luoghi dove persone con disabilità convivono, per 8 o per 24 ore al giorno, con il supporto di personale dedicato e specializzato.
L’assunto, che infatti non viene quasi mai messo in discussione, è che si tratti di persone le cui menomazioni e compromissioni rendono difficile o addirittura impossibile la vita nei luoghi ordinari della vita sociale, a partire dal lavoro, con la sola eccezione della famiglia di origine, almeno per le persone che frequentano i servizi semiresidenziali. Non è un caso che la sovvenzione pubblica che permette a questi servizi di funzionare, si basi sulla quantità di prestazioni ritenute necessarie per soddisfare i bisogni fondamentali della persona, spesso indicati nel concetto dei “minuti di assistenza”.
Una situazione curiosa dato che gran parte di queste realtà sono nate negli ultimi vent’anni del secolo scorso, sull’onda di discorsi pubblici che parlavano del “diritto all’integrazione delle persone handicappate”. I Centri diurni nascono infatti come alternativa alla precoce istituzionalizzazione e le stesse norme che regolavano i servizi residenziali sono state modificate e plasmate da questa potente spinta culturale: in questo periodo nascono ad esempio le “comunità” e l’organizzazione di molto servizi residenziali viene definita per moduli di ridotte dimensioni, almeno rispetto a quelle precedenti.
A distanza di diversi anni, possiamo constatare che però il mandato sociale affidato al sistema dei servizi non è stato sostanzialmente modificato. Sono cambiati molti aspetti non secondari nel definire la qualità della vita delle persone con disabilità che vivono in questi servizi, ma non la ragione profonda della loro esistenza. In altre parole è cambiato il “come” (risultato da non sottovalutare!) ma non il “perché”. Nessuno infatti può mettere in discussione che le proposte educative e riabilitative odierne siano qualitativamente migliori di quelle presenti nei servizi dedicati alle persone con disabilità del passato. Sono migliorate le condizioni materiali, gli aspetti relazionali grazie anche alla crescita complessiva della competenza degli operatori che lavorano nei servizi.
Quello che non si è modificato è il mandato sociale che è quello, in estrema sintesi, di occuparsi di persone con disabilità che non trovano un ruolo e quindi un posto nella nostra attuale società. Un mandato che viene poi interpretato dalle pubbliche amministrazioni nei criteri e nelle norme di funzionamento, finanziamento e controllo di questi servizi, che sono sempre più concepito come “luoghi dove stare” nel caso dei centri diurni e ancora come “posti letto” ne caso dei servizi residenziali.
Non mancano certo enti gestori che cercano di interpretare in modo diverso la loro funzione, insistendo ad esempio nel loro ruolo di ponte verso il resto della società oppure di sostegno per l’emancipazione e verso la vita adulta delle persone con disabilità loro affidate: si tratta di esperienze che non riescono a fare scuola perché sviluppate “nonostante” il sistema di regole che sostiene i lor servizi e, in alcuni casi, mettendole apertamente in discussione, con qualche rischio dei responsabili di questi enti.
La gran parte delle realtà e degli operatori hanno cercato invece di adattarsi alle richieste dell’ambiente sociale e delle norme di funzionamento, cercando di creare al loro interno la dimensione del sostegno e sviluppo all’autonomia, all’autodeterminazione e persino all’inclusione. In questo contesto si comprende il senso di espressioni della “autonomia possibile” che in qualche modo giustificano il permanere per decenni di persone in ambiti dedicati e speciali, pur in presenza di dichiarazioni di condivisione con gli ideali di integrazione e inclusioni dichiarati nelle carte dei servizi o dei valori dei diversi enti.
L’autonomia di chiunque è sempre una autonomia possibile ma solo nel caso delle persone con disabilità questa diventa una motivazione per non promuovere la partecipazione alla vita sociale. Numerosi interventi, anche all’interno dello scorso numero di questa rivista, hanno messo in luce come il concetto di “indipendenza” non può essere, per nessuno, definito come la condizione di non aver bisogno degli altri ma piuttosto come la possibilità di essere messi nelle condizioni di poter compiere le scelte per ognuno di noi importanti per la propria vita.
Quando si parla di persone con disabilità invece il diritto alla partecipazione alla vita sociale sembra che debba essere condizionato al raggiungimento di alcune capacità “minime”: ne abbiamo un esempio in questi primi anni di applicazione della Legge 112 che è stata utilizzata, prevalentemente, per proporre attività ed esperienze che potessero migliorare le capacità, materiali e relazionali, considerate necessarie per poter andare a vivere in un appartamento con altre persone. È come se le persone con disabilità dovessero avere un “patentino” che le abiliti alla vita sociale o, per essere più precisi, a potere accedere i sostegni necessario per poter partecipare alla vita sociale.
In assenza di questi requisiti anche il diritto alla partecipazione viene delegato -e anche confinato- all’interno delle mura dei servizi che vengono definiti comunque luoghi di integrazione perché le persone che le abitano, ovvero “utenti e operatori”, vivono bene insieme, vanno d’accordo, hanno buone relazioni. Buone cose, ovviamente e, come già detto, da non dare per scontate, ma che non sembrano avere grande parentela con quel diritto alla partecipazione alla vita della società su base di uguaglianza con gli altri, affermato con grande chiarezza dalla Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità.
Il perimetro del servizio, non sembra neanche infrangersi quando le attività si svolgono al di fuori dei muri perché gran parte fra queste si configurano come uscite di gruppo dove il modello di funzionamento del servizio viene replicato in altro ambiente: ad esempio la piscina (con la corsia riservata) piuttosto che il mercato con il gruppetto di persone con disabilità e operatori che si aggira, ben controllato, tra le bancarelle e gli altri avventori.
Promuovere la partecipazione è altra cosa: si tratta di un processo che può essere semplice o complesso a seconda dei casi, ma che deve avere anche una sua concretezza. Se è vero che non basta essere presenti e frequentare i luoghi della comunità per poter partecipare è certamente altrettanto vero che non ci può essere partecipazione senza una presenza diretta e reale.
Lavorare per consentire la piena partecipazione significa creare le condizioni affinché i contesti sociali si modifichino e si adattino alle caratteristiche delle persone, di tutte le persone comprese quelle di tutte le persone con disabilità, affinché si possano sviluppare relazioni positive e tutti siano messi in condizione di esserci, essere parte delle attività, poter esprimere il proprio punto di vista, essere considerate persone con pari dignità delle altre.
Lavorare per consentire la piena partecipazione a tutte le persone con disabilità potrebbe e dovrebbe essere uno dei nuovi orizzonti di lavoro e di impegno dell’intero sistemi di welfare sociale per la disabilità. A questo obiettivo dovrebbero certamente allinearsi certamente le norme di funzionamento e di finanziamento dei servizi: un risultato che potrà essere raggiunto agevolmente solo nel momento in cui la comunità degli operatori sociali e sociosanitari che lavorano in questi ambiti inizierà a reclamare a gran voce la necessità di dover lavorare per questo obiettivo e non più per la custodia e protezione delle persone con disabilità a loro affidate.
Questo articolo è stato pubblicato
sul secondo numero della rivista "Univers@bility"
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