ROMA - Sagace, intelligente e sempre umano, il pensiero di Franco Bomprezzi come giornalista, scrittore e blogger appare ancora oggi di insospettata attualità. Qui di seguito pubblichiamo alcuni degli interventi che ha firmato sulle pagine del mensile “Superabile Inail” dal 2012 al 2014, anno della sua scomparsa.
Costretto su una sedia a rotelle
È l’archetipo, la colonna portante, il tormentone dei luoghi comuni più biecamente usati dai giornalisti italiani. Se ci pensate bene, è perfino intraducibile. Solo nella nostra lingua sembra avere un senso. E invece questa espressione è micidiale, perché parte dalla convinzione che l’handicap sia colpa della sedia a rotelle, e cioè sposta la disabilità, la mancanza di mobilità fisica, proprio su quel mezzo – la carrozzina – che al contrario consente, a chi ne fa uso, di muoversi liberamente o spinto da qualcuno.
Io scrivo, di me stesso: vivo e lavoro in sedia a rotelle. Ringrazio chi l’ha inventata e perfezionata. Perché quando ero ragazzo non esistevano sedie a rotelle superleggere o elettroniche. C’erano solo dei pezzi di ferro a ruote, pesanti e difficili da manovrare. Ora la sedia a rotelle (in inglese wheelchair) è da un lato un ausilio tecnologicamente avanzato, versatile, personalizzabile, e dall’altro il “simbolo” del paradigma della disabilità, a partire dal logo stilizzato del contrassegno internazionale. È forse questo il paradosso più intrigante dal punto di vista della comunicazione e dello stigma. Siamo “costretti” a usare la sedia a rotelle, ma solo come simbolo. Per il resto, ben venga la libertà di muoversi a ruote. |
Disabile
Il problema di questo aggettivo è che si è trasformato in sostantivo. Ecco perché alla fine è stato necessario articolare il pensiero fino a giungere, in sede di Nazioni Unite, a “persona con disabilità”. Disabile di per sé infatti è un’evoluzione intelligente di handicappato. Meno greve, meno stigmatizzante, ma pur sempre in negativo, con quel prefisso “dis” che connota la parola, e dunque anche la condizione umana. Disabile però è un termine onesto, in qualche modo ragionevole e realistico. È quasi il naturale punto di congiunzione tra ciò che pensa la gente e la realtà di chi vive su di sé la condizione di disabilità, motoria, sensoriale, intellettiva. È un termine molto generico, non particolarmente offensivo, ma tale comunque da connotare la persona, dimenticando di confrontare la sua situazione con l’ambiente che la circonda, e con il contesto sociale e culturale nel quale è inserita. Non a caso, ormai un bel po’ di anni fa, ho pensato a “SuperAbile”, quale nome del progetto che Inail stava realizzando. Un gioco di parole, ma anche, in qualche modo, il tentativo semantico di esorcizzare e di ribaltare un altro “luogo comune”.
Diversamente abile
Forse Claudio Imprudente non si rende conto del danno che ha provocato, quando, applicando ironicamente su se stesso questa “definizione”, ha aperto la porta a una deriva buonista e ipocrita che sicuramente non era nelle sue intenzioni. Non sopporto diversamente abile. Perché chi utilizza questo termine è convinto di far bene, pensa di essere politicamente corretto, è lì pronto a darti un buffetto o una pacca sulla spalla. Chi lo dice, infatti, si ritiene “abile” e basta, senza quel “diversamente”. E poi non è un caso che la locuzione piaccia al mondo della politica, sempre in cerca di consenso, un po’ piacione e molto compiacente. Diciamo la verità: nessuno di noi ha deciso di “specializzarsi” in “diversa abilità”. È successo, e non per scelta. Siamo persone. Con disabilità. Più o meno.
(Interventi tratti dal numero di dicembre di SuperAbile INAIL, il mensile dell’Inail sui temi della disabilità)