Lo scrittore Sergio Rilletti racconta la sua esperienza con gli operatori che ha incontrato in diversi servizi. Un contributo a un progetto di ricerca che pubblichiamo integralmente
Questo contributo è stato realizzato su richiesta di un gruppo di lavoro che coinvolge anche operatori di LEDHA-Lega per i diritti delle persone con disabilità che sta conducendo analisi sul ruolo degli educatori e dei professionisti dei servizi sulla quotidianità e sui diritti delle persone con disabilità. Ad alcune persone con disabilità è stato chiesto di raccontare le proprie esperienze, concentrandosi in particolare sugli aspetti critici di queste relazioni.
A volte, nella vita, si può cambiare radicalmente opinione. A volte lo si fa riguardo una singola persona, a volte riguardo un’intera categoria di persone. In quanto persona affetta da tetraparesi spastica dal 1988 ho a che fare con gli educatori; per venticinque anni è stato un rapporto continuativo, poi si è un po’ diradato, fino ad arrivare alla mia ultima esperienza (almeno per il momento) avvenuta tra maggio e giugno del 2021.
All’inizio, quando avevo vent’anni, provando ammirazione per loro mi domandavo: “Ma chissà che studi fanno per diventare educatori?”. Poi, col passare del tempo, la domanda è rimasta quella ma ha acquisito un’accezione completamente diversa. Concentrarmi solo sull’aspetto negativo di questo tipo di rapporto non sarà facile, dato che ho vissuto molti momenti simpatici, e a volte proprio unici, grazie anche alla categoria degli educatori, ma comunque lo farò, perché, oltre a essermi stato richiesto dalla LEDHA, ritengo sia mio dovere di scrittore affrontare questo tema in modo diretto, senza usare, per una volta, personaggi inventati come filtro.
Si sa che, nel corso della vita, si possono incontrare delle persone più o meno simpatiche, con le quali ci si sente più o meno affini. E questo è normale. Almeno finché c’è il rispetto. Quando invece il rispetto viene a mancare, il rapporto sviene. Se poi la mancanza di rispetto viene da parte di un educatore o di un’educatrice, allora lo svenimento è totale. E l’educatore in questione, molto probabilmente, non si renderà mai conto di quanto abbia fatto la figura dell’antipatico e dell’imbecille.
Ora, cominciando da alcuni casi meno gravi e poco eclatanti, per poi aumentare man mano di intensità, voglio citarne tre che mi sono capitati in altrettante vacanze di gruppo.
Un giorno, per colpa di un obiettore di coscienza che continuava a farmi scherzi in piscina, avevo perso un sandalo, e l’educatore, anziché mostrarmi solidarietà, non solo non disse nulla all’obiettore ma avrebbe voluto far ricomprare i sandali a me (poi però, per fortuna, il sandalo fu ripescato dall’équipe del villaggio turistico). In un’altra vacanza, invece, nonostante le mie raccomandazioni di non affidarmi a un certo volontario che nella vacanza precedente mi aveva maltrattato fisicamente, l’educatore mi mise proprio in stanza con lui, e quando glielo feci notare, mi rispose: “Ormai è fatta, mi dispiace”. Infine, in una terza vacanza, un altro ragazzo in carrozzina mi stuzzicò a tal punto da indurmi a reagire, e l’educatore in questione, vedendo solo che l’altro le stava beccando (per gioco, naturalmente), ma non sapendo che era stato lui a cominciare, approfittando di un successivo momento di pioggia mi lasciò fuori dal bungalow, e, riparatosi assieme a tutti i volontari, che lo spalleggiavano, continuava a domandarmi se volessi chiedere scusa, e io, con un bel sorrisone, caparbiamente continuavo a rispondere di no, per diversi minuti (poi, alla fine, l’educatore si stufò e mi fece entrare): un fatto che avrei potuto archiviare come semplice goliardia, sennonché alla fine l’educatore, in tono un po’ piccato, mi disse: “Guarda che lo so che hai fatto così perché sapevi che alla fine avremmo ceduto!”. Praticamente quello che secondo me, e probabilmente anche secondo i volontari, era uno scherzo, secondo lui avrebbe dovuto essere un metodo educativo.
Ma ciò che mi è accaduto con gli educatori a Milano, nel corso degli anni, è decisamente peggio, dato che ogni volta che tentavo di chiarirmi -con un’altra persona disabile, un autista di pulmini, un volontario, o con altri- anziché venire aiutato venivo sempre osteggiato. E quelli che seguiranno sono solo un paio di esempi, di cui uno, il secondo, particolarmente grave.
Una volta, un’educatrice si offrì di aiutarmi con una coppia di volontari per chiarire un pagamento non corretto del cinema; uscì con noi, ma, al momento opportuno, cambiò idea, non disse nulla, e, quando la interrogai con lo sguardo, si limitò a bofonchiare qualcosa di incomprensibile, alzando le spalle. Mentre un’altra volta, che stavo attraversando un periodo particolarmente ostico col gruppo di volontari con cui uscivo settimanalmente -fatto di scambi molto duri tramite e-mail-, l’educatore-capo (che chiamerò Gelsomino, come ho già fatto in qualche mio racconto) mi convocò coi miei genitori, e, pur vedendomi disperato, negò che i volontari mi avevano scritto delle e-mail particolarmente dure, rinnegò di avermi dato ragione per iscritto, mi disse che era ora di smetterla, e suggellò il tutto con questa frase: “Il mio compito è organizzare le uscite; poi, quello che accade dopo, sono cavoli vostri, ma proprio cavoli vostri!”… paragonandosi, praticamente, a un centralinista.
Concludo questa rapida carrellata di fatti autobiografici con due casi emblematici: il primo è piuttosto conosciuto, per via di un mio racconto autobiografico, intitolato Solo!, che mi ha portato veramente molta fortuna; il secondo è molto più recente, ma merita di essere portato alla luce.
Solo! è il racconto in cui narro, attimo per attimo, tutto quello che ho realmente pensato e vissuto in due ore da incubo, da quando un gruppo di volontari -guidati da un educatore volpone- mi abbandonò con la mia piccola carrozzina elettrica in mezzo al Parco di Monza per farsi un giro in risciò, a quando riuscii farmi ritrovare. Ma Solo! non è nato per vanità, per mostrare a tutti com’ero stato bravo a cavarmela da solo in una situazione fortemente anomala, bensì come gesto di ribellione e di speranza.
Infatti, quello che mi ferì di più è stato ciò che accadde dopo, sia perché riscontrai subito nei volontari uno stato di indifferenza sull’accaduto che proprio non mi aspettavo, sia perché, quando tornammo a Milano, l’educatore volpone (che in Solo! ho chiamato Carletto) si rivolse ai miei genitori col tono scherzoso, come se io avessi combinato una bricconata. Ma quello che è stato ancora più deprimente e allucinante è stato il clima di assoluta omertà che subii per diversi mesi da parte di Gelsomino e di quei volontari coinvolti che avrebbero potuto contattarmi tramite e-mail per chiedermi come stavo e che, invece, non l’hanno fatto, tacendo anche quando mi vedevano di persona.
Io, in fondo, a Gelsomino chiedevo solo due cose: un incontro con quei volontari e con Carletto, e il numero di cellulare dei due giovani sconosciuti che mi avevano aiutato in maniera encomiabile, per poterli ringraziare. Quando, dopo mesi di solleciti e di pazienza, capii che Gelsomino non aveva intenzione di fare nulla, prima scrissi Solo!, per far conoscere quello che mi era capitato e, soprattutto, nella speranza di rintracciare i due giovani che mi avevano aiutato, e poi scrissi un’e-mail ai diretti interessati e a una marea di persone legate all’associazione in questione, denunciando quello che mi era accaduto e il clima di omertà che stavo subendo. Solo! non mi fece ritrovare i miei due giovani soccorritori, ma mi regalò tantissime soddisfazioni, anche inaspettate. Dopo l’e-mail, invece, Gelsomino si affrettò a organizzare addirittura due incontri.
E ora veniamo all’ultimo capitolo, a quello che mi capitò tra il maggio e il giugno del 2021 in quella che chiamerò “Disability house”.
Io c’ero già stato, nell’ottobre 2019, a fare una sperimentazione di vita indipendente della durata di due settimane, che andò benissimo, inducendomi a regalare loro una copia del mio libro Le avventure di Mister Noir, con tanto di dedica, ringraziandoli per avermi fatto assaporare un sogno. Infatti, oltre a essere riuscito a riprodurre la mia vita quotidiana quasi come se fossi a casa -seppur venendo incontro alle richieste dell’équipe-, ero riuscito a tessere un buon rapporto con ciascuno di loro… tanto da indurmi a fare un’altra sperimentazione, molto più lunga, che, se fosse andata bene come pensavo, si sarebbe trasformata in una permanenza definitiva.
Invece andò male, un disastro totale: non passava giorno senza una polemica o un problema. I membri dell’équipe, pur essendo gli stessi della sperimentazione precedente, non volevano darmi retta (né su ciò di cui ero stato diretto testimone né su quello che riguardava proprio me), mentivano, e si spalleggiavano a vicenda (confermando, a prescindere, ciò che diceva uno di loro, anche se non c’erano al momento del fatto, ignorando totalmente ciò che dichiaravo io), e nessuno ammetteva mai le proprie responsabilità, attribuendole, invece, agli altri abitanti, al Covid-19, e persino a due divani che avevano (leggermente) spostato. E quindi, molto fantasyosamente, alla mia diversa percezione della Casa; come se il loro comportamento avesse qualcosa a che fare con l’arredamento. E, quando qualcuno di loro parlava con mia mamma o mia sorella, ovviamente dava loro un’impressione completamente diversa su come andassero le cose, omettendo sempre tutte le difficoltà che mi avevano creato.
Tutto questo senza contare che le due educatrici, che chiamerò Camilla e Miriam, e che durante la prima sperimentazione mi sembravano due miracoli e con le quali ero rimasto in contatto, erano le più agguerrite nell’applicazione dell’Ostinato Diniego; come se avessero ricevuto un preciso ordine al riguardo. E quando, una volta che eravamo soli in casa, dissi a Miriam -che, di sua iniziativa, la volta precedente, mi aveva dato la sua e-mail, il suo contatto Facebook, e il suo numero di cellulare- che mi sembrava diventata un po’ fredda nei miei confronti, lei non solo lo negò ma arrivò persino a rinnegare il passato, spiegandomi cos’è un’amicizia e asserendo che in quel lungo periodo ci eravamo sentiti perché c’era il Covid… informandomi, praticamente, con mio grande stupore, sul motivo per cui io le telefonavo!...
È vero che, avendo anticipato a un operatore e alla coordinatrice della Casa la mia intenzione di voler parlare con Miriam, dubito che sia stata una sua completa iniziativa comportarsi così, ma comunque, in quel momento, eravamo soli. La mia sperimentazione a “Disability house” terminò dopo solo ventitré giorni, anziché le sette settimane programmate, dopo aver adeguatamente risposto a un’e-mail di Camilla -indirizzata a un gruppo di persone coinvolte a vario titolo in questo mio progetto-, dove l’educatrice in questione, narrando alcuni fatti in modo distorto, aveva tentato di farmi passare per uno squilibrato!... E così, ora, anche la responsabile generale -che ricopre un ruolo superiore a quello della coordinatrice-, che fino a quel momento era stata all’oscuro di tutto, cominciò a sapere che a “Disability House” c’era qualcosa che non andava.
Bene, il mio resoconto finisce qui. Ho cercato di selezionare i fatti più narrabili tra i molti che mi venivano alla mente, cercando di raccontarli nel modo più sintetico possibile.
Una sera, al Boulevard Café, durante un’intervista che gli stavo facendo per l’agenzia giornalistica Hpress, Andrea G. Pinketts mi disse: “Io credo che la letteratura possa migliorare quelle persone che hanno voglia di essere migliorate, e a volte persino la necessità di essere migliorate”. Io credo che avesse ragione, e spero, con questo mio articolo narrativo, di poter aiutare a migliorare le cose.
ANFFAS LOMBARDIA ETS
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