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Francesco, Sara, Elena: sono caregiver che, con le loro storie “cliniche”, reclamano un diritto che ancora non c'è. “Ci sentiamo come limoni spremuti fino all'ultima goccia”. Improta: “Speriamo ci sia, prima o poi, una giornata mondiale del caregiver. E un sistema sanitario che ci garantisca uno screening, una volta l'anno”
ROMA - Franscesco Cannadoro ha perso più di quaranta kg nell'ultimo anno e mezzo. Si è sottoposto ad un intervento di riduzione chirurgica dello stomaco: non un vanto, non un lusso, ma una necessità. “L'ho fatto per me, per Tommi e per la mamma”. Perché prendersi cura di Tommi non è facile e chiede dedizione, ma anche prestanza fisica. E tutti quei chili rischiavano di creargli problemi seri, che non può permettersi chi come lui si dedica alla cura di un figlio con grave disabilità. Oggi è passato “da 117 kg a 77. Sto bene, mi sento in forma, ho più stima in me stesso e posso dedicarmi a mio figlio in piena salute”. Parlerà di questa scelta e di questo percorso in un video dedicato, che pubblicherà domenica sul suo canale YouTube.
Francesco è un caregiver che ha deciso, con fatica e tra tanti dubbi e paure, di prendersi cura di sé, con un intervento drastico, che “mi ha cambiato la vita”, assicura. Elena, Sara, Elena sono anche loro caregiver e, come Cannadoro, riconoscono e rivendicano il diritto di prendersi cura di sé e in particolare delle debolezze del proprio corpo: un diritto che vivono anche come un dovere nei confronti dei figli di cui si prendono cura, perché un caregiver che si ammala è un problema grande soprattutto per chi riceve le sue cure ogni giorno.
“Aver cura di noi è l'unico modo per prenderci cura dei nostri cari”
Come spiega Sara Bonanno, “questa pandemia ha tirato fuori tante condizioni traumatiche e stressanti in tutta la popolazione, Ma chi vive da anni in queste condizioni, chi con la malattia molto grave di un familiare ha a che fare quotidianamente, ha vissuto in questa condizione sanitaria una doppia emergenza: da un lato quella che attiene al covid, quindi doversi salvaguardare e dover salvaguardare dal contagio; dall'altra quella di ritrovarsi da soli, senza più la garanzia dei sostegni che con la pandemia sono addirittura scomparsi, inghiottiti da un'attenzione politica che, soprattutto in Italia, ha dimenticato i più fragili.”. Niente di più sbagliato e controproducente, secondo Bonanno: “Quando su un aereo c'è un'emergenza, le indicazioni che vengono date sono molto precise, soprattutto a chi siede accanto a qualcuno che ha delle difficoltà (bambino, anziano o persona con disabilità): in questi casi, si raccomanda all'accompagnatore d'indossare lui per primo la maschera per l'ossigeno, il salvagente e tutto ciò che è necessario per il soccorso. E solo a quel punto, di farlo indossare alla persona che cura. Perché? Perché studi scientifici hanno dimostrato che questo è il modo migliore per salvare entrambe le vite”.
Ed è questa un'immagine che rende con evidenza quanto sia cruciale tutelare il diritto alla salute del caregiver. Eppure, “noi famigliari abbiamo tirato senza assistenza per quasi due anni: in molti sono crollati e non ci sono più – riferisce Bonanno - Limoni spremuti fino all'ultima goccia. In maggioranza stiamo per cedere, sfiniti da un lockdown senza fine ed in quasi totale solitudine, ci siamo dimenticati di esistere. Ma se noi non esistiamo, come abbiamo purtroppo visto troppe troppe volte in questi ultimi due anni, anche i nostri figli, i nostri genitori anziani, i nostri congiunti non autosufficienti finiscono di esistere. E' ora di dirci, senza più giri di parole, che abbiamo un solo modo per continuare a garantire la vita ai nostri cari: aver cura di noi”. “Un giorno l'anno per curare il nostro corpo”
Elena Improta racconta così la condizione dei caregiver, che vive da quando è nato suo figlio Mario, ormai più di 40 anni fa. “Cosa vuol dire essere caregiver? Svegliarsi la mattina presto col mal di testa, come se non si fosse mai andati a dormire. Vuol dire imporsi tutti i giorni sui social, per farsi sentire in una comunità che non ci ascolta. Per questo tanti di noi scrivono, raccontano, sui social e nei libri. Ma c'è anche chi si toglie dai social e si chiude, si dedica completamente al figlio o alla figlia. Non riusciamo a far comprendere i nostri bisogni”. Uno di questi, forse quello principale, è il bisogno di curare il proprio corpo. “Le malattie si accavallano nel nostro corpo – racconta Improta - da quando nascono queste creature a quando moriremo noi. E, speriamo, anche loro, cinque minuti prima di noi. Non esiste un sistema sanitario che ci riconosca uno screening periodico annuale, gratuito”.
Improta inizia un elenco di patologie, che però è molto più lungo di così: “Deprivazione del sonno, stress, esaurimento psicofisico, dolori alle ossa, schiacciamenti delle vertebre, artrosi, fino a uno stato che potremmo definire di menopausa precoce – racconta - perché non riconosci più il tuo corpo, non sei più vista come una persona nella sua bellezza, ma come una macchina da guerra che sta lì per colmare un vuoto legislativo e di servizi. Siamo un mondo parallelo di persone agli arresti domiciliari, con una libertà legata a una sigaretta, a un bicchiere di vino, a un terrazzo, a un immaginario. Ci costringiamo a vivere nel qui e ora, perché se andiamo oltre richiamo di diventare quella mamma che lancia il figlio nel fiume e poi si suicida. Non ci resta che continuare a lottare, anche contro le nostre malattie e il nostro dolore, con dignità e a testa alta. Ma siamo stanche di sentire la pietà e vorremmo che si riuscisse a dare un senso riconoscibile e riconosciuto. I premi del presidente della Repubblica sono fondamentali per noi, perché ci immedesimiamo. Speriamo però che un giorno ci sarà una giornata mondiale e uno strumento che ci porti a prenderci cura di noi: una sanità che almeno una volta l'anno ci riconosca il diritto di prenderci cura di noi, di fare esami diagnostici e poter essere considerati una risorsa per la comunità, che va curata, accarezzata e custodita”.