La discussione di queste settimane sulla possibile introduzione di “competenze non cognitive” nelle scuole di ogni ordine e grado pone una riflessione, almeno tre questioni rilevanti e altrettante possibili proposte operative a nostro avviso sostenibili.
Una riflessione
Premesso che tali competenze trovano nel panorama internazionale a livello scientifico e scolastico diverse denominazioni a seconda della differente prospettiva di analisi (ad esempio, life skills [“abilità di vita”] per sottolineare il loro essere “funzionali” all’adattamento quotidiano nei diversi àmbiti di vita; soft skills [“competenze trasversali”]per intendere la loro valenza trasversale rispetto a competenze più hard relative allo svolgimento di specifici compiti scolastici o lavorativi; personality traits [“tratti della personalità”] per evidenziare soprattutto le basi neuropsicologiche di partenza ecc.), innanzitutto è pregevole l’attuale attenzione e sostegno politico per valorizzare e promuovere l’implementazione delle stesse in percorsi di sperimentazione triennale, rivolti a istituzioni scolastiche e a centri provinciali per l’istruzione degli adulti, nonché in percorsi di istruzione e formazione professionale (Disegno di Legge n. 2943: Introduzione dello sviluppo di competenze non cognitive nei percorsi delle istituzioni scolastiche e dei centri provinciali per l’istruzione degli adulti, nonché nei percorsi di istruzione e formazione professionale, approvato alla Camera l’11 gennaio scorso e trasmessa al Senato il giorno successivo).
Definite nel documento di legge approvato alla Camera in oggetto come «competenze non cognitive», esse da tempo sono riconosciute fondamentali dalla letteratura internazionale per l’adattamento e l’apprendimento (Heckman & Rubinstein, 2001). In primis è bene citare, a sostegno di ciò, le dieci life skills descritte dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 1993 come competenze psicosociali caratterizzate da comportamenti adattivi e positivi, che consentono alle persone di affrontare efficacemente le richieste e le sfide della vita quotidiana (OMS, 1994): ai fini dell’adattamento quotidiano e del benessere personale, cioè, vengono riconosciute essenziali capacità quali problem solving e decision making, pensiero creativo e senso critico, comunicazione e relazione efficaci, conoscenza di sé, empatia e gestione delle emozioni e dello stress. Ma soprattutto si sottolinea come tali abilità possano e debbano essere sviluppate e sostenute con programmi specifici che aiutino i bambini, le bambine e gli adolescenti a crescere più responsabili e resilienti.
Anche il recente documento del Consiglio dell’Unione Europea relativo alle competenze chiave per l’apprendimento permanente del 2018 ribadisce l’importanza di prevedere dei percorsi lifelong learning [di lunga durata, N.d.R.] a sostegno del principio che ogni persona ha diritto a un’istruzione, a una formazione e a un apprendimento permanente di qualità e inclusivi, al fine di mantenere e acquisire competenze che consentano di partecipare pienamente alla società e di gestire con successo le transizioni nel mercato del lavoro.
Le otto competenze chiave per l’apprendimento declinate nel documento di indirizzo europeo, in continuum con il precedente del 2006, sono, inoltre, definite come necessarie per far fronte ad un mondo in rapido cambiamento ed estremamente interconnesso, dove ogni persona avrà quindi la necessità di possedere un ampio spettro di abilità e competenze da sviluppare ininterrottamente nel corso della vita.
Le competenze chiave così definite in questo quadro di riferimento, che si intersecano, si sovrappongono e si rinforzano l’una con l’altra, hanno, inoltre, il fine di porre le basi per creare società più uguali e più democratiche… soddisfano la necessità di una crescita inclusiva e sostenibile, di coesione sociale e di ulteriore sviluppo della cultura democratica.
Nel documento, in particolare, le competenze dalla numero 5 alla 8 includono quelle definibili nel Disegno di Legge citato come “non cognitive”, descritte come un insieme di conoscenze, abilità e atteggiamenti personali, sociali e capacità di imparare necessari per promuovere una cittadinanza attiva, per gestire efficacemente il tempo e le informazioni, per lavorare con gli altri in maniera costruttiva, per mantenersi resilienti e per gestire il proprio apprendimento e la propria carriera. Nell’ambito dell’orientamento pre- e post- universitario, il Consorzio AlmaLaurea, cui aderiscono circa ottanta Atenei italiani, individua una serie di soft skills come competenze trasversali, accogliendo le richieste provenienti dal mercato del lavoro di promuovere interventi urgenti per arricchire la formazione degli studenti con competenze personali orientate al mondo del lavoro stesso: essere autonomi, avere fiducia in se stessi, sapersi adattare e resistere allo stress, saper gestire le informazioni e le comunicazioni ecc., rappresentano caratteristiche personali importanti da possedere in qualsiasi contesto lavorativo perché influenzano il modo in cui si affrontano e si gestiscono in modo positivo e costruttivo le richieste di quell’ambiente.
Almalaurea, riconoscendo il valore e la necessità di tali competenze trasversali per affrontare un inserimento sociale-lavorativo di qualità, precisa che le soft skills sono però molto più difficili da sviluppare rispetto alle hard – competenze prettamente tecniche e professionali – perché sono il risultato del nostro background socio-culturale, frutto di comportamenti ed esperienze vissute, professionali e personali. Ciò mette fortemente e necessariamente in gioco il primario ruolo educativo ed esperienziale della famiglia e della scuola fin dalla primissima età, come variabile positiva o negativa (potremmo affermare come “facilitatore” o “barriera”).
Nel complesso emerge allora un chiaro riconoscimento dell’importanza di tali competenze che potremmo chiamare in differente modo (soft, trasversali ecc.), ma che comunque fanno riferimento a dimensioni socio-emozionali e di autoconsapevolezza individuali. Evidenziamo che, in àmbito scolastico le stesse sono ampiamente valorizzate nella scuola d’infanzia e primaria, laddove viene posta in primo piano (o almeno dovrebbe) la formazione completa della personalità del bambino e della bambina (Fedeli, 2006); viceversa, tendono spesso a recedere sullo sfondo nelle scuole secondarie e in àmbito universitario vengono schiacciate da una maggiore focalizzazione su conoscenze disciplinari e competenze hard.
Tre questioni aperte
Partendo quindi da questa ultima riflessione, si aprono tre questioni su cui riflettere, al fine di avviare percorsi educativi in cui queste competenze (comunque le si voglia chiamare) siano strettamente e indissolubilmente legate a quelle disciplinari e di tipo hard.
La prima questione da porsi è riferita all’utilizzo della denominazione “competenze non cognitive”, con il rischio quindi di incentivare la confusione rispetto a quanto invece è utilizzato e descritto nei documenti normativi scolastici e universitari di riferimento per le scuole. Nelle Indicazioni Nazionali per il Curricolo (2012), ad esempio, le competenze, qui in oggetto, sono definite come competenze più ampie e trasversali, che rappresentano una condizione essenziale per la piena realizzazione personale e per la partecipazione attiva alla vita sociale, orientate ai valori della convivenza civile e del bene comune. Le competenze per l’esercizio della cittadinanza attiva sono promosse continuamente nell’àmbito di tutte le attività di apprendimento, utilizzando e finalizzando opportunamente i contributi che ciascuna disciplina può offrire.
E ancora, nel recente Decreto Ministeriale 742 del 2017, i modelli A e B per la certificazione delle competenze chiave europee fanno riferimento alle Raccomandazioni Europee del 2006, chiedendo ai docenti di certificare per gli allievi dell’ultima classe della primaria e quelli alla fine del primo ciclo di istruzione le otto competenze del documento europeo.
La seconda questione riguarda la difficoltà a liberarsi dal dualismo “razionale-non razionale”, ‘cognitivo-non cognitivo”. Una crescente letteratura scientifica negli ultimi anni (si pensi solamente agli ormai storici contributi sul concetto di “intelligenza emotiva” di Salovey e Mayer o al lavoro di Antonio Damasio sull’errore del dualismo cartesiano) sembrava infatti aver messo termine al vecchio dualismo tra un cervello razionale, indentificato sostanzialmente nella corteccia cerebrale e responsabile di processi e abilità strettamente cognitive (quelle alla base delle cosiddette hard skills), e un cervello emotivo, circoscritto a circuiti sotto-corticali e limbici e deputato alle reazioni emotive della nostra mente (maggiormente coinvolte nelle soft skills).
Questa impostazione dualistica ha avuto ripercussioni importanti anche e soprattutto a livello educativo e scolastico, laddove troppo spesso l’attenzione è stata concentrata solo sull’acquisizione e la memorizzazione di conoscenze e procedure, mentre in fase valutativa non si è considerato adeguatamente l’impatto di dimensioni emotivo-relazionali sulla performance di un bambino/a o di un ragazzo/a. Aprendo una piccola parentesi riflessiva, nel citato Disegno di Legge presentato alla Camera, la motivazione a sostegno dell’inserimento nella formazione scolastica delle “competenze non cognitive” è stata sull’analisi effettuata nel Rapporto sulla conoscenza del 2018 dell’ISTAT, dove emerge che al termine del primo ciclo di istruzione il 34,4 per cento dei giovani non aveva raggiunto un livello sufficiente di competenze alfabetiche, un dato che saliva al 40,1 per cento se si consideravano le competenze numeriche. Ancora una volta, quindi, le competenze qui in oggetto sembrano pensate più al servizio delle conoscenze scolastiche che non alla formazione più ampia di quelle capacità utili ad affrontare le continue esperienze di apprendimento nella vita.
Cognizioni, emozioni e relazioni sono indissolubilmente legate nel comportamento quotidiano dei bambini e dei ragazzi, quando studiano, giocano, praticano sport ecc. Ad esempio, la paura di sbagliare incide sull’efficacia del recupero mnestico [concernente la memoria, N.d.R.] e sulla capacità di pianificare una risposta durante un’interrogazione; questo timore, a sua volta, è strettamente legato alla qualità della relazione che lo studente ha con gli adulti di riferimento (insegnanti e genitori in primis) e con i compagni. Oppure, l’entusiasmo ed altre emozioni positive aumentano la persistenza nel compito di uno studente impegnato nella preparazione di una verifica; questa emozione positiva è legata però anche ad un’analisi razionale e realistica dei propri punti di forza e delle proprie debolezze.
Vicendevolmente, sulla capacità di controllare e regolare le proprie emozioni pesa in modo significativo il possesso di un adeguato vocabolario, che consenta di descrivere con precisione le sensazioni avvertite a livello corporeo, gli eventi in grado di elicitare certe reazioni emotive ecc.
Potremmo continuare con altri esempi, ma risulta limitante contrapporre competenze cognitive e non cognitive come se non entrassero tutte le componenti in qualsiasi nostra azione. Ormai sappiamo bene che il nostro cervello non lavora per camere stagne, per cui è impossibile separare in modo netto ed artificioso i vari processi. Anzi, potremmo affermare che non esiste nulla di più cognitivo (nella sua accezione di processo di conoscenza) delle emozioni, che rappresentano il modo più diretto e immediato con cui conosciamo noi stessi e l’ambiente (Fedeli, 2013).
Ad esempio, un lieve livello di ansia e paura per un’interrogazione ci informa del fatto che ci sentiamo impreparati rispetto al compito e quindi sollecita e supporta un ulteriore impegno di studio (oppure flessibilmente la ricerca di approcci alternativi); viceversa, la rabbia nei confronti di un amico ci segnala che siamo insoddisfatti della nostra relazione attuale con lui (inducendoci ad esempio ad esercitare il pensiero critico nel valutare e modificare il nostro e l’altrui comportamento). In definitiva, allora, categorizzare le abilità in cognitive e non cognitive rischia solamente di separare ancor più il loro funzionamento, senza riconoscere come in ogni attività (di gioco, di studio ecc.) solo la loro stretta interazione supporta un modo di procedere funzionale, flessibile e consapevole.
Questo ultimo punto ci porta direttamente alla terza questione, ossia l’introdurre “nuove” competenze per negazione. Perché, pur volendo mantenere una visione dualistica della mente e dell’educazione, non definirle allora competenze emotive, sociali, relazionali o in altro modo? Perché proporle come la negazione di qualcos’altro? Anche perché, con quali meccanismi se non quelli prettamente cognitivi e insiti nell’apprendimento esse verrebbero apprese, generalizzate e utilizzate con scopo, per affrontare con successo la propria autodeterminazione?
Tre possibili proposte operative
Ribadendo allora l’importanza del riconoscimento di competenze socio-emotive e della loro sperimentazione nei percorsi scolastici e formativi di ogni ordine e grado, si avanzano tre piccole proposte operative a nostro avviso sostenibili, pur nella consapevolezza della complessità dei temi trattati (e forse proprio nel tentativo di una loro semplificazione).
In primo luogo, forse sarebbe più semplice per tutti adottare la definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità di life skills, ossia quell’insieme di competenze trasversali psicosociali utili per gestire in modo consapevole e positivo la propria vita (dall’autoregolazione emotiva al pensiero critico), che sono un mix indissolubile di processi cognitivi, emotivi, sociali ecc. Sapendo però che la promozione di competenze trasversali per la vita richiede, fin dalla primissima infanzia, l’adozione nelle classi di una didattica adattiva, flessibile e strutturata su, e con, compiti connessi alla realtà, ossia esperienze di apprendimento attente a promuovere l’autonomia, la responsabilità e l’autodeterminazione del singolo allievo e della sua comunità di studio e lavoro (Cottini, Munaro & Costa, 2021).
In secondo luogo, sarebbe altresì utile che tale lavoro di sperimentazione trovasse un’adeguata rappresentazione nei processi di formazione iniziale e permanente degli insegnanti, favorendo un più ampio ripensamento della didattica disciplinare e curricolare e delle metodiche di gestione della classe. Tra i criteri di successo della sperimentazione potrebbe allora essere incluso anche il livello di flessibilità e permeabilità delle prassi scolastiche sollecitato dall’introduzione di competenze socio-emotive e autoregolative: in altri termini, si dovrebbe assistere non solo ad un diverso modo di apprendere (in cui entrano più in campo competenze emotive e sociali), ma anche ad un differente modo di insegnare.
Infine, sarebbe auspicabile dare maggiore voce a quelle progettualità rivolte agli allievi con bisogni speciali (quindi maggiormente a rischio di dispersione), per i quali l’apprendimento e l’esercizio di adeguate “abilità di vita” rappresenterebbe un viatico importante per un positivo adattamento all’ambiente nell’ottica dell’autodeterminazione e della qualità della vita (Cottini, Munaro & Costa, 2021).
Si potrebbe allora partire da un interrogativo ancor più basilare: ad un’attenta e concreta riflessione, quanto ciò è oggi realmente patrimonio esteso a tutte le scuole del territorio italiano (considerato l’alto investimento formativo promosso dal Ministero dell’Istruzione, ad esempio, per il cambio di paradigma nella progettazione e valutazione nella scuola primaria e per la realizzazione dei Percorsi per lo sviluppo delle Competenze Trasversali e l’Orientamento – PCTO) o invece quanto siamo ancora lontani dalla meta?
Certo è che il mondo scuola, già di per sé rappresentante a pieno titolo un sistema educativo e sociale molto complesso, visto l’importante ruolo che ricopre dal punto di vista esperienziale e degli apprendimenti, ha bisogno di condividere con i propri Uffici Scolasti Regionali e Territoriali e con le altre agenzie educative, formative e aziendali, definizioni, percorsi formativi e obiettivi chiari ed utili a promuovere esperienze concrete, finalizzate a padroneggiare e implementare competenze cognitive ed emotive trasversali, definite preferenzialmente come life skills.
Riferimenti bibliografici:
° AlmaLaurea, Soft Skill: le chiavi per il mondo del lavoro.
° Lucio Cottini, Claudia Munaro, Francesca Costa, Il nuovo PEI su base ICF: guida alla compilazione, Firenze, GiuntiEDU. 2021.
° Antonio Damasio, L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, Milano: Adelphi, 1994.
° Daniele Fedeli, Emozioni e successo scolastico, Roma, Carocci, 2006.
° Daniele Fedeli, Pedagogia delle emozioni. Lo sviluppo dell’autoregolazione emozionale da 0 a 10 anni, Roma, Anicia, 2013.
° James J. Heckman, Yona Rubinstein, The Importance of Noncognitive Skills: Lessons from the GED Testing Program, in «The American Economic Review», 2001, 91(2), pp. 145–149.
° Paola Marmocchi, Claudia Dall’Aglio, Michela Zannini, Educare le life skills. Come promuovere le abilità psico-sociali e affettive secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, Trento, Erickson, 2004.
° Raccomandazioni del Consiglio dell’Unione Europea relative alle competenze chiave per l’apprendimento permanente, in «Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea», 4.6.2018.
° Peter Salovey, John D. Mayer,. Emotional Intelligence, in «Imagination, Cognition and Personality», 1990, 9(3), pp. 185–211.
° World Health Organization (OMS-Organizzazione Mondiale della Sanità), Division of Mental Health, Life skills education for children and adolescents in schools. Pt. 1, Introduction to life skills for psychosocial competence. Pt. 2, Guidelines to facilitate the development and implementation of life skills programmes, Ginevra, OMS, 1994.