«Certo che siete proprio identici voi due!». Non lo avevo mai notato. La prima volta è successo a Roma, circa tre anni fa. Mostravo una foto di mio fratello ad alcuni colleghi. Era un’immagine un po’ sfuocata, un momento catturato con lo smartphone durante una videochiamata. Io, rimpicciolita in basso sullo schermo, mostro la mano aperta in un cenno di “ciao”. Lui sorride dalla felicità e dalla timidezza di ritrovarsi dentro un appuntamento con me, la sorella lontana, in un modo per lui inusuale. Gli abbiamo fatto scoprire le videochiamate solo da poco tempo, ma sono diventate sin da subito un modo tutto nostro per abbattere le distanze.
Il suo sorriso, dicevo. Il suo sorriso illumina il mondo oramai da 25 anni. Quando non sorride, c’è da preoccuparsi: vuol dire che da qualche parte si nasconde un malessere che non sa esprimere. Se tutto intorno a lui gira invece per il verso giusto, mio fratello Giacomo sorride, sorride sempre. Non avevo mai fatto caso al fatto che il suo sorriso somiglia moltissimo al mio. Più il tempo passa e più ci somigliamo, nonostante invece da piccoli fossimo completamente diversi l’uno dall’altra. Sembra quasi un segno del destino: quel rapporto tutto nostro, quel modo di stare insieme, di crescere, di comunicare, di volerci bene e di essere fratelli oltre la sua condizione sembrava essere destinato a dissolversi a causa delle distanze. E invece, man a mano che crescevamo e che stavamo lontani, diventavamo sempre più simili.
Fin quando un bel giorno, davanti allo specchio, ho ritrovato un po’ di lui in me.
Sono stata lontana per 13 anni ed è stata la pandemia a riportarmi riportato alla casa di infanzia dove io e mio fratello siamo cresciuti insieme. Avevo 7 anni quando è nato, dopo avere chiesto per tanto tempo ai miei genitori un fratellino o una sorellina.
I pensieri di un bambino sono semplici. Non avevo mai riflettuto a fondo su cosa volesse dire essere la sorella di qualcuno, ma avevo voglia da piccola di condividere la mia vita e i miei giochi, avere qualcuno a cui “voler bene”, o almeno questo dicevo spesso a mia madre, ricordandole ogni tanto il mio desiderio, quasi fosse la lista dei doni da chiedere a Babbo Natale.
Con la stessa semplicità ricordo di avere affrontato la condizione del fratellino appena nato, che per me è stata sin da subito la normalità del quotidiano della mia famiglia. Ho capito solo da grande quanto dura sia stata la prova che anch’io ho dovuto affrontare: essere messa fisiologicamente un po’ da parte, lasciare spazio al nuovo arrivato più fragile di me, sentirsi ancora piccoli, pur dovendo iniziare a camminare nel mondo un po’ più soli. Ma ricordo anche di quanto ai tempi queste considerazioni fossero lontane nella mia mente.
La mente di una bambina che iniziava a crescere anzitempo, ma senza mai perdere di vista la dimensione del gioco e la bellezza di quanto aveva appena ricevuto: un fratello, il suo.
Sarà per questo che ho imparato solo da più grande a riconoscere in mio fratello una persona con disabilità; da piccoli quella dimensione così sconosciuta e spesso temuta dagli adulti non ci è mai appartenuta e credo che in fondo non ci appartenga del tutto neanche oggi.
Mio fratello è mio fratello e basta: nessuna diagnosi ha potuto mai intaccare il nostro reciproco “appartenerci” in un modo tutto nostro. Che evolve negli anni, ma che resta uguale a se stesso nel suo nucleo più profondo.
Oggi io ho 32 anni, lui 25 e nonostante i mille giri di boa delle nostre vite, non abbiamo mai smesso di solcare lo stesso mare, anche a volte in tempi e modi diversi. Io affrontavo la mia vita da adolescente e da giovane donna, lui cresceva a modo suo, scoprendo man mano tutte le sue fragilità e imparando ad essere più forte di esse, a brillare tenuto per mano, ma sempre avvolto in quella sua personalissima nebbia di solitudine, una bolla di silenzio dell’epilessia e dell’autismo. Nulla ha potuto annientare la sua tenacia, la sua voglia di conquistare e costruirsi un proprio spazio nel mondo.
E noi tutti siamo stati e siamo tutt’oggi niente di più che le mani che lo sostengono, per evitargli la caduta, proprio come per i bambini quando iniziano a camminare.
Non ci sono regole o metodi per imparare a fare i genitori delle persone con disabilità, ancora meno per imparare a fare i fratelli. Forse il primo passo è imparare a osservarli e a conoscerli nel tempo con gli occhi dei fratelli-e-basta e con lo stesso sguardo imparare a osservare se stessi.
Tornare a casa è stato come indossare un paio di occhiali nuovi che hanno messo a fuoco le vecchie paure che i bambini imparano in fretta a seppellire in qualche cassetto della memoria nascosto; ma hanno anche riacceso la luce su tutto quel piccolo mondo sospeso tra passato e presente, fatto di giochi e di cura l’uno dell’altra, che ha segnato la nostra infanzia.
Forse il segreto, allora, è imparare a non spegnerla quella luce, anzi imparare a farla brillare ogni giorno di più. È la luce dell’istinto e della spontaneità tipica dei bambini che rende più bella ogni cosa. Anche la disabilità.