Effetto dopo la prima lettura: forte disorientamento.
Quando un servizio può essere definito “istituzionalizzante”
Le “Linee Guida sulla deistituzionalizzazione, anche in caso di emergenza” sono state redatte con l’espresso scopo “diguidare e sostenere gli Stati parti nei loro sforzi per realizzare il diritto delle persone con disabilità a vivere in modo indipendente e a essere incluse nella comunità, e di essere la base per pianificare i processi di deistituzionalizzazione e di prevenzione dell’istituzionalizzazione.”[3]
Il documento indica infatti in modo netto come sia un “Obbligo degli Stati parte di porre fine all’istituzionalizzazione”[4].
Una serie di affermazioni e indicazioni che approfondiscono e riprendono quanto affermato dalla Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità e poi ripreso da diversi “Commenti generali”, in particolare quelli relativi agli articoli 5 e 19 della stessa Convenzione[5].
La necessità della redazione di queste “Linee guida” nasce dall’osservazione del “Comitato” che “che i processi di deistituzionalizzazione non sono conformi alla Convenzione o sono in ritardo”[6].
Un’indicazione che riguarda anche il nostro paese, dato che anche in Italia e anche in Lombardia spesso l’unica alternativa alla cura famigliare è proprio l’istituzionalizzazione. In realtà è da molti anni che diversi interventi di politica sociale sono motivati proprio dalla necessità di “contrastare l’istituzionalizzazione delle persone con disabilità”, in applicazione di varie norme regionali e nazionali che, hanno iniziato a indicare come necessaria la prevenzione all’istituzionalizzazione.
Già una prima lettura del documento segnala, però, la grande distanza che corre tra quando previsto dalla corretta interpretazione della Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità e la realtà. Non si tratta solo di non aver mai visto, né a livello nazionale né a quello regionale alcun piano o progetto sistematico di deistituzionalizzazione delle persone con disabilità. Il punto è che il documento delle Nazioni Unite mette all’indice come “istituzionalizzanti” anche alcuni di quei servizi e di quei sostegni oggi attivi e finanziati proprio per evitare l’isolamento e l’istituzionalizzazione. Il problema sorge infatti quando dobbiamo definire e concordare cosa si debba contrastare ed evitare. Una discussione che si è riaperta in Italia negli ultimi anni e che ha portato anche alla formazione, in seno all’Osservatorio Nazionale sulla condizione delle persone con disabilità, di un gruppo di lavoro dedicato proprio al “Contrasto alla segregazione” che ha redatto un documento pubblicato sul sito dell’Osservatorio, già oggetto di diverse riflessioni e confronti.[7]
Quando un servizio può essere definito “istituzionalizzante”?
Nel campo dei servizi residenziali le “Linee Guida” indicano che: “Esistono alcuni elementi che definiscono un’istituzione, come l’obbligo di condividere gli assistenti con altre persone e l’assenza o la limitata influenza su chi fornisce l’assistenza; l’isolamento e la segregazione dalla vita indipendente nella comunità; la mancanza di controllo sulle decisioni quotidiane; la mancanza di scelta da parte delle persone interessate su chi vivere (lack of choiche for the individuals concerned over with whom live); la rigidità della routine a prescindere dalla volontà e dalle preferenze personali; attività identiche nello stesso luogo per un gruppo di persone sotto una certa autorità; un approccio paternalistico nell’erogazione dei servizi; la supervisione delle modalità di vita; un numero sproporzionato di persone con disabilità nello stesso ambiente.[8]”
Il documento delle Nazioni Unite non si limita ad offrire una definizione generale ma entra nello specifico indicando le tipologie di interventi e servizi che non dovrebbero essere più sostenuti dagli Stati perché definibili come istituzionalizzanti: “L’istituzionalizzazione delle persone con disabilità si riferisce a qualsiasi detenzione basata sulla sola disabilità o in combinazione con altri motivi come “assistenza” o “trattamento”. La detenzione specifica per la disabilità avviene tipicamente in istituzioni che includono, ma non sono limitate a, istituzioni di assistenza sociale, istituzioni psichiatriche, ospedali per lungodegenti, case di cura, reparti protetti per demenza, scuole speciali, centri di riabilitazione diversi da quelli comunitari, case di riabilitazione, case di gruppo, case di tipo familiare per bambini, case di vita protette o di accoglienza (sheltered or protected living homes), strutture psichiatriche forensi, case di transito, ostelli per albini, colonie di lebbra e altri ambienti di aggregazione. Le strutture per la salute mentale in cui una persona può essere privata della libertà a scopo di osservazione, assistenza o trattamento e/o detenzione preventiva sono una forma di istituzionalizzazione.”[9]
In un altro passaggio viene anche specificato che sono considerati “istituzionalizzanti” anche i centri diurni: “I centri diurni o i laboratori protetti non sono conformi alla Convenzione”.[10]
Nessun tipo di servizio è quindi escluso ma non è tanto o solo il “luogo” a determinare l’istituzionalizzazione, quanto: “Indipendentemente dalle dimensioni, dallo scopo o dalle caratteristiche, o dalla durata di qualsiasi collocazione o detenzione, un istituto non può mai essere considerato conforme alla Convenzione.”[11]
Pianificare processi di deistituzionalizzazione e prevenzione
L’approccio senza appello delle “Linee Guida” si conferma anche quando indica che gli Stati: “dovrebbero abrogare leggi e regolamenti e modificare o abolire le usanze e le pratiche che impediscono alle persone con disabilità di vivere in modo indipendente e di essere incluse nella comunità. I quadri giuridici e politici dovrebbero consentire la piena inclusione di tutte le persone con disabilità e guidare i processi di deistituzionalizzazione verso la chiusura degli istituti”[12].
Ma soprattutto si alza forte la richiesta che gli Stati si dotino di un programma di deistituzionalizzazione senza indugio e senza sconti perché, sempre secondo queste “Linee Guida”: “Non esiste alcuna giustificazione per perpetuare l’istituzionalizzazione. Gli Stati parte non devono usare la mancanza di sostegno e di servizi nella comunità, la povertà o le stigmatizzazioni per giustificare il mantenimento degli istituti o i ritardi nella loro chiusura. (…)[13]
Inoltre, viene indicato che gli Stati: “… dovrebbero fornire immediatamente alle persone la possibilità di lasciare gli istituti, revocare qualsiasi detenzione autorizzata da disposizioni legislative non conformi all’articolo 14 della Convenzione, sia che si tratti di leggi sulla salute mentale o altro, e proibire la detenzione involontaria basata sulla disabilità. Gli Stati parti dovrebbero immediatamente sospendere i nuovi collocamenti in istituti, adottare moratorie sulle nuove ammissioni e sulla costruzione di nuovi istituti e reparti, e dovrebbero astenersi dal ristrutturare e rinnovare gli istituti esistenti.”[14]
Le Linee Guida della Nazioni Unite fanno poi equivalere – senza mezzi termini – qualunque forma di istituzionalizzazione con la condizione di segregazione e violenza.
“L’istituzionalizzazione è una pratica discriminatoria nei confronti delle persone con disabilità, contraria all’articolo 5 della Convenzione. Comporta la negazione di fatto della capacità giuridica delle persone con disabilità, in violazione dell’articolo 12. Costituisce una detenzione e una privazione della libertà basata sulla menomazione, in violazione dell’articolo 14. Costituisce una detenzione e una privazione della libertà basata sulla menomazione, in contrasto con l’articolo 14. Gli Stati parti dovrebbero riconoscere l’istituzionalizzazione come una forma di violenza contro le persone con disabilità.”[15]
Se è vero, come è vero che gli Stati Parti dovrebbero abolire tutte le forme di istituzionalizzazione, è necessario quindi procedere con la stesura di un progetto e un programma che abbia il fine, nel senso di scopo e termine, di avviare un serio processo di deistituzionalizzazione. Una fase di transizione, definita da: “un piano di deistituzionalizzazione strutturato e di alta qualità, che deve essere completo e contenere un piano d’azione dettagliato con scadenze, parametri di riferimento e una panoramica delle risorse umane, tecniche e finanziarie necessarie e assegnate”[16]
Un lavoro che – secondo il Comitato delle Nazioni Unite – deve coinvolgere le persone con disabilità e le loro associazioni maggiormente rappresentative, non prevedendo invece la presenza degli Enti gestori. Una fase di transizione durante la quale, sempre secondo le indicazioni di questo documento, deve comunque cessare ogni sostegno sostanziale ai servizi considerati istituzionalizzanti.
“Non c’è nessuna giustificazione per perpetuare l’istituzionalizzazione[17]”.
Nessun argomento viene considerato adeguato a sostenere la necessità del funzionamento dei servizi istituzionalizzanti che non “possono mai essere considerati una forma di protezione delle persone con disabilità o una “scelta”[18] e non può essere invocata “la mancanza di sostegno e servizi nella comunità (..) per continuare il mantenimento degli istituti o rimandare la loro chiusura”[19].
Neanche la “gravità”, che tanto determina ancora l’invio di persone con disabilità nei servizi residenziali, viene considerata come possibile giustificazione “Nessuna persona dovrebbe essere lasciata indietro nel processo di deistituzionalizzazione, includendo anche le persone che richiedono un forte sostegno”.[20]
Infine si afferma, pensando in particolare ai bambini e adolescenti con disabilità che: “Gli standard internazionali che giustificano o incoraggiano il mantenimento delle cure residenziali sono in contraddizione rispetto alla Convenzione e devono essere aggiornati”[21].
Il documento mette anche in evidenza il necessario lavoro nella e sulla comunità, così come i fattori intersezionali che amplificano il rischio di discriminazione e isolamento e la necessaria attenzione nei momenti di emergenza, come le catastrofi naturale, le guerre e le pandemie, così come nei progetti di cooperazione internazionale. Viene anche messa in risalto la necessità di poter disporre di dati disaggregati e di un servizio di monitoraggio degli esiti del processo di deistituzionalizzazione, così come la necessità di prevedere forme di risarcimento per le persone che hanno subito situazioni di istituzionalizzazione.
Alcune considerazioni sulla realtà lombarda
La più alta istituzione politica, che ha l’autorità di interpretare e sostenere l’implementazione della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità ha definito, senza mezzi termini, ogni forma di istituzionalizzazione, come una forma di violenza, sopruso e grave violazione dei diritti umani. La strada – dal punto di vista del Comitato delle Nazioni Unite – è insomma tracciata e, nello sviluppo del documento (che merita una lettura attenta e integrale soprattutto in rapporto alle nostre realtà) viene descritta sotto molte e diverse sfaccettature, affrontando il tema tanto da un punto di vista legale che di programmazione sociale.
Far finta di niente e ignorare queste affermazioni e le conseguenti indicazioni sarebbe un grave errore. Senza negare la portata rivoluzionaria del documento non sembra però che in Lombardia, citando Bartali, “l’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare”. Vi sono già alcune esperienze che dimostrano come un modello di intervento di Welfare sociale basato sui diritti umani delle persone con disabilità, possa essere efficace e sostenibile[22]: si tratta di uscire dall’alveo delle sperimentazioni per far entrare in questa fase creativa l’insieme del sistema dei servizi, pubblici e privati. L’articolo 19 della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità attribuisce una chiara preferenza ad un modello di Welfare basato sull’assistenza personale ma non esclude la possibilità di accedere a sostegni e i servizi, basati sulle scelte delle persone con disabilità.
La condizione per evitare il rischio dell’istituzionalizzazione è che il sostegno sia: “individualizzato, personalizzato e offerto attraverso una varietà di opzioni. Il sostegno comprende un’ampia gamma di assistenza formale e di reti informali basate sulla comunità”[23] e che: “I modelli di finanziamento dei servizi di sostegno dovrebbero essere flessibili e non limitati dall’offerta. Gli Stati parte dovrebbero investire nella creazione e nello sviluppo di un’ampia gamma di servizi di sostegno flessibili per rispondere alle esigenze di individui diversi, rispettando la loro scelta e il loro controllo, compresa la possibilità di progettare nuove forme di sostegno.[24]”
La strada che viene indicata è chiara: bisogna certamente investire sulla capacità di tutte le persone con disabilità di determinare la propria esistenza e quindi concepire un modello di Welfare che utilizzando tutte le risorse disponibili, compresa l’assistenza personale ma senza escludere i servizi specializzati, favorisca la vita indipendente l’inclusione sociale.
Obiettivo di questo articolo è proprio quello di portare all’attenzione del dibattito pubblico i contenuti di questo documento ed avviare una riflessione sulle implicazioni concrete che ne possono derivare per il sistema di welfare regionale anche alla luce della Legge n. 227/2021 (Delega al Governo in materia di disabilità) e della recente Legge regionale n. 25/2022 (Politiche di Welfare sociale regionale per il riconoscimento del diritto alla vita indipendente e all’inclusione sociale di tutte le persone con disabilità): una strada non facile, che per essere percorsa, ha sicuramente bisogno della partecipazione e del coinvolgimento di tutte le realtà associative e le persone che ogni giorno rendono concreto, con il loro lavoro e il loro impegno, il Welfare sociale per la disabilità in Lombardia.
[1] Convention on the right of persons with disabilities, ratificata dallo Stato Italiano con la Legge 3 marzo 2009 n 18.
[2] Guidelines on deinstitutionlization, including in emergencies. La versione ufficiale del testo è in lingua inglese; non esiste al momento una versione in italiano. Le citazioni sono quindi frutto di una traduzione non professionale ma comunque fedele del documento.
[3] Estratto da punto I, numero 1, pagina 1 Guidelines on deinstitutionlization, including in emergencies (d’ora in avanti “Linee guida”).
[4] Titolo del punto II “Duty of States parties to end institutionalization” delle “Linee guida”.
[5] General comment n.6 Equality e non discrimination e General comment n. 5 on Article 19 – the right to live indipendently and be included in the comunity.
[6] Punto II, numero 5, pagina 1 delle “Linee guida”
[7] Per approfondimenti si segnalano i seguenti contributi pubblicati su LombardiaSociale.it:
Zanisi M., La perdita dell’innocenza. Io sono (stato) segregante, 18 luglio 2022
Malè M, Servizi contro la segregazione? Si può fare, 19 ottobre 2022.
[8] Punto III, lettera A, numero 14, pagina 2 delle “Linee guida”.
[9] Punto III, lettera A, numero 15, pagina 2 delle “Linee guida”.
[10] Punto VI, lettera B, numero 76, pagina 11 delle “Linee guida”.
[11] Punto III, lettera B, numero 17, pagina 3 delle “Linee guida”.
[12] Punto V, numero 53, pagina 7 delle “Linee guida”.
[13] Punto II, numero 9, pagina 2 delle “Linee guida”.
[14] Punto II, numero 13, pagina 2 delle “Linee guida”.
[15] Punto II, numero 6, pagina 1 delle “Linee guida”.
[16] Punto V, lettera C, numero 67, pagina 10 delle “Linee guida”.
[17] Punto II, numero 9, pagina 2 delle “Linee guida”.
[18] Idem.
[19] Idem.
[20] Punto VII, lettera A, punto 91, pagina 13 delle “Linee guida”.
[21] Punto IV, lettera C, punto 43, pagina 6 delle “Linee guida”.
[22] Per approfondimenti sul tema si segnalano alcuni contributi sul tema pubblicati su LombardiaSociale.it:
Castagnaro C. e Melzi A. (a cura di), Tentativi di un welfare personalizzato, 2 maggio 2022;
Bollani M., Disabilità: servizi per l’inclusione e la vita indipendente, 5 dicembre 2022.
[23] Punto II, lettera D, numero 23, pagina 3 delle “Linee guida”.
[24] Punto VI, lettera B, numero 78, pagina 11 delle “Linee guida”.