Dario ha 35 anni e fa il rider in Sicilia. Ha una invalidità civile al 76%, a seguito di una insufficienza renale che nel 2012 lo ha portato ad essere trapiantato: dallo Stato percepisce ogni mese 287,09 euro - «l’ultima volta sono stati 301, non so come mai», dice - di assegno di invalidità. Il lavoro da rider invece gli consente di guadagnare circa 4mila euro l’anno. Ora l’Inps lo mette davanti a un aut aut: o lavorare o ricevere l’assegno. «È vergognoso, inaccettabile, è evidente che con meno di 300 euro al mese non si vive: perché allora dobbiamo per forza essere totalmente inattivi per poter continuare a ricevere l’assegno?», si chiede Dario.
La questione è la seguente: fino ad ora l’assegno di invalidità civile veniva erogato in tredici rate mensili a persone di età tra i 18 e i 67 anni, con invalidità riconosciuta tra il 74% e il 99%, che non svolgano attività lavorativa. Il Centro Studi Giuridici HandyLex in questi giorni ha spiegato che siccome per un certo periodo lo svolgere un lavoro che non facesse superare un certo limite di reddito stabilito (4.931,29 euro annui di reddito personale) era considerato al pari dell’inattività lavorativa. Ora invece l’Inps, sulla scorta della giurisprudenza formatasi in materia, ritiene che svolgere un’attività lavorativa precluda sempre il diritto al beneficio, a prescindere dalla misura del reddito ricavato. Da qui il Messaggio n. 3495, che sta sollevando enormi preoccupazioni.
«In attesa di trovare un lavoro, il mio piano era quello di tenere da parte l’assegno e badare alle mie spese con lo stipendio da rider», spiega Dario. «Vivo in famiglia, la mia fortuna è questa ma io non posso dover vivere per sempre con i miei». Il lavoro da rider, che Dario fa con il monopattino, «è bello perché sto sempre in giro e ho conosciuto tante persone» ma allo stesso tempo «è faticoso e incerto, non ti garantisce mai dei guadagni stabili. D’altronde il collocamento mirato non serve a nulla, non mi hanno mai chiamato». La speranza è che «ai paini alti capiscano l’errore che stanno facendo», dice Dario. Diversamente la scelta per lui sarebbe obbligata: «Dovrei rinunciare al lavoro come raider, perché l’assegno rimane l’unica entrata fissa su cui posso contare. È ovvio che dovrei lasciare l’incerto per la cosa certa. Però non è giusto penalizzare noi che nella vita siamo stati un po’ sfortunati ma abbiamo voglia di lavorare».
Dalla Sicilia all’Emilia Romagna, le cose non cambiano. Andrea ha 52 anni, una disabilità intellettiva e una pensione di invalidità al 100%. Lui non rientra nella casistica del contestato messaggio (che riguarda solo gli invalidi parziali) e anzi l’anno scorso ha visto aumentare la sua pensione da 290 euro a 650 euro al mese: ma la sua bella sorpresa dall’Inps l’ha comunque avuta. Anche qui per via del lavoro. «Dal 2002 Andrea lavora in una cooperativa che ha un centro occupazione con un laboratorio meccanico, tra gli operai ci sono anche alcune persone con disabilità, con un educatore ogni 5 persone», racconta la mamma. Il centro è in convenzione con il comune e nel piano educativo individuale di Andrea c’è anche il lavoro in questo centro: «Non è uno stipendio ma una borsa lavoro di 155 euro al mese, l’Inail la chiama borsa di studio. Da qualche mese l’Inps la sottrae alla pensione». Dal punto di vista economico, dice la mamma, la borsa di studio vale meno di quello che la famiglia versa come contributo giornaliero per la frequenza del centro «ma noi di questa attività siamo molto soddisfatti, per Andrea è il suo lavoro a tutti gli effetti e quello che percepisce è il suo stipendio. Psicologicamente è un punto fondamentale della sua vita».
A livello politico in queste ore si stanno moltiplicando le dichiarazioni che parlano di un equivoco da corregere immediatamente. «A fronte delle legittime preoccupazioni suscitate dal messaggio Inps in merito al requisito dell’inattività lavorativa per la liquidazione dell’assegno mensile di invalidità civile, mi sono prontamente attivata con il ministro Orlando e l’Istituto affinchè si trovasse una strada per superare l’ingiustizia normativa», ha detto la ministra Erika Stefani. «Ho proposto una possibile soluzione che ho anche condiviso con Falabella e Pagano, presidenti di FISH e FAND-ANMIC, registrando una positiva apertura che mi rende fiduciosa rispetto a una rapida soluzione. La possibilità per le persone con disabilità di realizzarsi attraverso il lavoro è elemento essenziale ai fini dell’inclusione e va quindi facilitato, non scoraggiato».
Fish e Fand hanno già incontrato la ministra Erika Stefani nel pomeriggio di mercoledì 20 ottobre, avanzando «la proposta di un emendamento a modifica all’articolo 13 di quella stessa Legge 118/71, che è alla base dell’attuale Messaggio prodotto dall’Istituto, eliminando in sostanza l’inciso riguardante lo svolgimento di attività lavorative da parte delle persone beneficiarie dell’assegno di invalidità civile parziale», riferisce Falabella. Il presidente della Fish ha avuto un confronto anche con il Presidente dell’INPS, ricevendo rassicurazioni sul fatto che «si intende procedere proprio su quella linea, per rimediare alla situazione creatasi». La Fish si muoverà in questa direzione nei confronti di tutte le forze politiche, per arrivare a un prossimo provvedimento legislativo.
Roberto Speziale, presidente nazionale di Anffas, sospira e ancora una volta cita la legge 328 del 2000. È la legge delega al Governo per il riordino degli emolumenti derivanti da invalidità civile, cecità e sordomutismo. Sono passati vent’anni. «Se a suo tempo si fosse data attuazione a quanto previsto dall'art. 24 della 328, magari separando la previdenza dall'assistenza e rafforzando il diritto al lavoro e ad un giusto reddito, oggi non ci troveremmo a fare la "guerra dei poveri" per difendere in una serie di "oboli" da chi, ogni giorno, si ingegna per metterne in discussione ora un pezzo ora un altro di provvidenze ed indennità», dice. In buona oggi avremmo un quadro organico di riferimento «che garantirebbe dignità di vita e cittadinanza alle persone con disabilità, anche dal punto di vista delle necessarie risorse di cui ognuno deve disporre e di come rendere tali risorse compatibili con il primario diritto ad avere un lavoro vero». Oggi, aggiunge Speziale, non solo il diritto al lavoro è pressoché negato alle persone con disabilità, con una evidente mancata attuazione della legge 68, «ma le persone e le famiglie sono spesso oggetto di richieste di consistenti somme sotto forma di compartecipazione, spesso non dovuta, come numerose sentenze stanno sancendo».
Quello che occorre, quindi, non è solo il giusto ripristino della situazione precedente al messaggio Inps: «Questa sarebbe l'occasione più opportuna per chiedere di riprendere in mano l'art. 24 della legge 328 per darne finalmente concreta e puntuale applicazione, impedendo di riprodurre le "odiose storture" come quella di cui stiamo parlando. Diversamente il concreto rischio che si corre in questa partita in cui lo Stato e gli Enti dallo stesso vigilati continuano a giocare sulla pelle delle persone con disabilità togliendo con la mano destra quello che sembrano concedere con la mano sinistra, è che si debba solo attendere il prossimo "attentato" ai nostri diritti, magari alzando un po’ il tiro. D'altronde non è lontano il tempo in cui si leggevano titoli sui "Disabili scrocconi" o in cui si spendevano milioni di euro per scovare "falsi invalidi": campagne tese a creare un clima di ostilità nei confronti delle vere persone con disabilità».
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